Recensione: …The Stories We Could Tell
C’era una volta il rock’n’roll… e c’era una volta un complesso che voleva riportare in auge questa musica corroborante, miscelata con due ingredienti tipici del luogo: il blues e il country. Questo gruppo di ardimentosi ambiva alla notorietà e voleva diventare una grande band, una stella nel morente panorama degli anni ottanta.
A chi mi sto riferendo? Ai Mr. Big, naturalmente. Se questo breve incipit vi ha suscitato nostalgia, siete sulla strada giusta per capire che “…The Stories We Could Tell” odora di vecchio rock, fumoso ed alcolico, lontano dalla patina e dalle levigate raffinatezze a cui ci hanno abituato gli attuali complessi di rock melodico. Sì, perché l’album dei Nostri ha lo stesso sapore di un tuffo nel passato: dopotutto, il titolo parla chiaro e avvicinandoci alla copertina, il corpulento baffone sulla cover sembra quasi animarsi e diventare una sorta di medium spirituale con il lontano passato, spalancando le porte di questo “saloon”, dove ci accomodiamo per degustare, tra un bicchiere e l’altro, una sana dose di rock d’annata.
La volontà di proporre un sound vetusto e refrattario alle mode è palese e i Mr. Big allestiscono un rodeo a base di groove ruvido e caldo come testimonia la ritmata “Gotta Love The Ride”, divisa tra l’andante e l’incedere passionale del coro, e la convulsa “I Forget To Breathe”, con il suo spavaldo hard’n’blues. Rincara la dose “Satisfied”, scoprendo le carte in tavola con un ritornello genuinamente bluesy, imbaldanzito dall’indole cowboy del rock a stelle e strisce. Impressione personale, ma i Mr. Big sembrano dare il massimo nelle canzoni più enfatiche come narrato da “Fragile”, il pezzo migliore dell’intero disco: il suo crescendo emotivo culmina nel palpitante refrain, che narra la nostra fragilità umana davanti al forte vento delle passioni. Un vento che soffia forte al richiamo del talentuoso Gilbert, sempre prodigo di virtuosismi, in questo caso, mai troppo scontati.
E come da tradizione, non mancano all’appello le canzoni più intime e romantiche, qui ben rappresentate da “The Man Who Has Everything” e dalla più riuscita “East/West”. Gli accordi di “The Man Who Has Everything” modellano un cullante adagio e il breve guitar solo fa la parte del leone, aggiungendo una punta di poesia al platter. In “East/West”, invece, possiamo contare non solo sul mellifluo contributo dell’acustica ma anche sulla forza di assoli e di cori commoventi, illuminati da backings intimi e radiosi. Nel finale, Paul Gilbert ci saluta sulle note struggenti della chitarra come il sole che tramonta tra dolci declivi. Assieme a “Fragile”, “East/West” si candida come apice dell’intera tracklist.
Al contrario, il combo arranca in “The Monster In Me”, dove gli statunitensi, cercando nuove soluzioni, danno risultati discutibili, con un ritornello a singhiozzi, poco convincente, che non riesce a generare il trasporto dovuto. Paul tenta di porvi rimedio, rendendo la canzone un palcoscenico più adatto per sfoggiare prodezze chitarristiche che per dimostrare le proprie abilità di songwriter.
Il tentativo di fare qualcosa di diverso con “The Monster In Me” viene subito tralasciato e si riprende la rotta verso sonorità oldies, senza nascondere le proprie influenze aerosmithiane (“What If We Were New?”), sempre con la stessa ritmica impellente e sanguigna, come denuncia “The Light Of Day”, rotolante track troppo innamorata del classico, ruvido hard’n’roll per proporre qualcosa di veramente nuovo. Le situazione migliora (guarda caso) con un brano toccante ed ecco che la dolce acustica di “Just Let Your Heart Decide” si fonde con un coro sofferto, mentre la chitarra solista ci intrattiene con giochi d’enfasi.
Dopo il fugace gaudio di “Just Let Your Heart Decide”, sembra inevitabile accettare l’evidenza di una proposta immobile. Tuttavia, se l’imprinting generale rimane quello di un ruvido hard rock giocato su tempi medi, sia “It’s Always About That Girl” che “Cinderella Smile” sanno intrattenere senza stupire o rivoluzionare. “It’s Always About That Girl” insinua un ritornello lento, venato dalle tonalità scure di un riff grintoso. Le incursioni soliste donano quella spinta che mancava in altre canzoni, riuscendo a movimentare l’atmosfera e a trasmettere i brividi dei nostri agitati desideri. “Cinderella Smile”, come “It’s Always About That Girl”, mantiene il rifferema lento e spigoloso e vi aggiunge un pre-chorus teso ed un refrain che si sposta su tonalità più alte, spiccando il volo e smuovendoci definitivamente. Un andamento inaspettato per una canzone che risulta una gradita sorpresa.
E la title track? La canzone che dà il nome all’album ricopre inaspettatamente il ruolo di closer: la song si muove ancora a passo lento ma deciso, imprimendo un motivo duro ed insinuante, spezzato qua è la da scorci funambolici dell’onnipresente guitar solo. In parole povere, nulla di eclatante…
Terminato l’ascolto, ci renderemo conto che le acrobazie del buon Gilbert e il basso energico di Sheehan mascherano un platter costituito da pezzi altalenanti, che purtroppo mancano spesso di un refrain veramente efficace o di un riff coinvolgente. Dai i Mr. Big non pretendiamo certo grandi innovazioni ma possiamo richiedere una maggiore ispirazione in fase di scrittura, rielaborando con gusto l’eredità del passato (caratteristica che contraddistingueva i Nostri agli inizi della loro carriera…). A spezzare una monotonia di fondo, ci pensano le canzoni più dolci ed emozionanti (“East/West”) ed alcuni pezzi che miscelano i due tratti salienti del disco (ruvido ed accorato), facendo intravvedere le reali capacità compositive di questo combo. “…The Stories We Could Tell” è, dunque, un compendio di hard rock vecchia maniera con alcune trovate interessanti che però non sono sufficienti a promuovere il disco a pieni voti. Certo, il sapore del classic rock dei Mr. Big è difficile da rifiutare ma è ormai una storia di cui conosciamo ogni dettaglio.
Eric Nicodemo
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