Recensione: The Strange Case Of…
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Nonostante la ancor giovane età, la prima incarnazione degli statunitensi Halestorm pone le radici addirittura nei tardi anni ’90, con i fratelli Hale, Lzzy alla voce e alla chitarra e Arejay alla batteria, ancor minorenni eppur già parecchio risoluti nella scelta di due musicisti che a tutt’oggi costituiscono parte integrante dell progetto: il secondo chitarrista Joe Hottinger e il bassista Josh Smith. Risalgono, poi, ad una decina d’anni più tardi la pubblicazione di un primo EP “di prova” e l’accordo con la Atlantic Records per la realizzazione e la distribuzione del debutto sulla lunga distanza, il buonissimo album omonimo uscito nel 2009.
Brevi (ma doverosi) excursus storici a parte, parlare degli Halestorm senza riservare un (grosso) capitolo a parte alla bella e brava Lzzy sarebbe obiettivamente assurdo, visti il ruolo e l’importanza nell’economia della band; la Hale non è, infatti, una semplice “cover girl” quanto piuttosto una vera e propria leader tuttofare, in grado di dare un impronta indelebile alla musica e all’immagine del suo gruppo. I lunghi capelli rossi e lo sguardo malandrino costituiscono i tratti più caratteristici di una fisicità in una parola dirompente, eppure il vero asso nella manica risiede in una voce di quelle che lasciano il segno. Dolcemente carezzevole sui pezzi più lenti quanto sexy, energica ed ammaliante quando si tratta di pigiare sull’acceleratore e di tirare fuori il massimo dalle proprie portentose corde vocali, Lzzy ha davvero poco da invidiare alle più celebrate amazzoni dell’hard rock anni ’80.
Una pur bella voce, senza tuttavia l’ausilio di canzoni adeguate non sarebbe di certo sufficiente a definire una band come tale. Per fortuna non è questo il caso degli Halestorm; come il suo predecessore, infatti, l’ultimo “The Strage Case Of…” presenta un bilanciamento pressoché perfetto tra energia e melodia, andando a coprire all’incirca lo stesso spettro espressivo di band quali Alter Bridge, Nickelback, Shinedown, Buckcherry e Theory Of A Deadman. Hard ‘n’ heavy moderno e melodico, dunque, nel quale la miglior tradizione hard rock/heavy metal anni ’80 va ad intrecciarsi con il flavour dimesso tipico del post grunge e dell’alternative rock anni ’90 e con le sonorità caratteristiche del groove e dell’alternative metal.
Parlare semplicemente di “potenza & melodia” sarebbe ad ogni modo limitante e riduttivo, nel caso degli Halestorm, tra tutti gli appartenente al novero dei “nuovi” nomi di cui sopra, probabilmente quelli maggiormente legati al buon vecchio Rock Duro. E così, a fianco di pezzi letali e dal taglio più moderno quali “Love Bites (So Do I)” e “I Miss The Misery”, possiamo trovare le più barocche “Mz. Hyde” e “Freak Like Me”, memori della lezione dell’horror/shock rock dei vari Alice Cooper e King Diamond, come pure la rockeggiante e settantiana “American Boys”, addirittura zeppeliniana nel riffeggiare. L’ugola assassina della Leonessa dalla fulva chioma la fa in ogni caso da padrona in ogni singolo passaggio e la sua proverbiale grinta esce allo scoperto tanto nei momenti più spinti quanto nelle ballate concentrate a metà scaletta. Sicché, del terzetto composto dalla favolosa power ballad “Beautiful With You”, dalla più timida “In Your Room” (sulle tracce dei Buckcherry di “Sorry”), e dall’intensa “Break In” (un po’ Bon Jovi anni ’90) è proprio quest’ultima a raccogliere i maggiori consensi, in virtù dell’emozionante melodia e di una prova vocale da brividi, accompagnata da un delicato pianoforte.
Peccato per il finale che cala un po’ con la già citata (e molto riuscita) “American Boys” a dividere la scena con due pezzi leggermente sotto la media di “The Strage Case Of…”: la solo discreta “You Call Me A Bitch Like It’s A Bad Thing” e la conclusiva ballad “Here’s To Us”, nobilitata dall’ennesima prova vocale di rilievo ma non del tutto convincente sul piano melodico.
Se il cosiddetto “Modern Hard Rock” fa parte dei vostri ascolti abituali, probabilmente questo è un album che già conoscete e già possedete; per i più tradizionalisti potrebbe, al contrario, trattarsi di una scoperta interessante e tutto sommato non troppo distante (pur con i dovuti aggiornamenti) dai canoni stilistici e contenutistici che andavano per la maggiore negli anni ’80. Se, inoltre, aggiungiamo al quadro le ragguardevoli doti (vocali e non) della Hale, non ci sono davvero scuse: lasciarselo sfuggire sarebbe un delitto!
Nota a margine
La Deluxe Edition presenta tre interessanti bonus track tra le quali si distinguono la scorrevole “Don’t Know How To Stop” e la bella ballata “Private Parts”, vicina a certe cose degli ultimi e penultimi Within Temptation nonché valorizzata dal contributo vocale di James Michael dei Sixx A.M. Due pezzi che avrebbero certamente ben figurato nella scaletta “ufficiale”, in luogo delle più deboli “You Call Me A Bitch Like It’s A Bad Thing” e “Here’s To Us”, ai quali si somma la più che buona “Hate It When You See Me Cry”.
Stefano Burini
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