Recensione: The Symbol of Death
Sono passati sette anni dall’impressionante flop di “Heal!” (2010) ed è il momento di riprovarci, per i tedeschi Disbelief. Con “The Symbol of Death”, decimo full-length di una carriera che sembrava essersi arenata definitivamente, con lo scellerato album sopra citato.
Invece…
… mai dare nulla per scontato. Né nel bene, né nel male. Sì, perché “The Symbol of Death” è un vero e proprio monumento allo sludge metal. Un inno a quel genere un po’ stretto fra death e doom che i Nostri hanno saputo prima di tutto rendere proprio, poi renderlo grande.
Il sound del disco è una meraviglia per le orecchie, fatto com’è dall’invisibile mota vischiosa che ne caratterizza il nome: sludge. Qualcosa che scivola, qualcosa che sfugge, qualcosa che si muove a mò di ameba. Presumibilmente “The Symbol of Death” fissa un punto di fermo nell’evoluzione tipologica del genere, talmente è centrato sull’obiettivo. Occorre evidenziare, prima di tutto, grazie a una potenza stratosferica che, nel caso si potesse alzare a manetta il volume del lettore laser, farebbe tremare tutti i vetri di un condominio. Un suono titanico, enorme, gigantesco; che bolle soffusamente come la lava quand’è ancora nel terreno. Fissato sul rombo mostruoso del basso di Jochen “Joe” Trunk, seminascosto nocchiero che guida la band nei reami della morte, nonché sulla roca, acida ugola di Karsten “Jagger” Jäger, fautore di un growling perfetto nel suo equilibrio con la parte musicale.
Ma non è solo il sound, a essere fantastico, in “The Symbol of Death”. Ci sono anche le song. Tredici, per una durata superiore all’ora. Detto che l’ascolto di tutto il pacchetto, da ‘Full of Terrors’ a ‘Anthem for the Doomed’, non procura benhé il minimo singulto di noia, si dice tutto. I Disbelief, difatti, riescono costantemente a diversificare la pietanza, lasciandone intatto il flavour di base, dando origine a canzoni pienamente inserite nel contesto stilistico del disco ma ricche di vita propria. Soprattutto quando il quintetto di Gundernhausen riesce a infilarci dentro anche un po’ di melodia, come nelle stupende ‘Embrace the Blaze’, ‘Rest in Peace’ (incipt da leggenda e blast-beats a stecca) e ‘Nothing to Heal’.
Tre capolavori tre che indicano di come sia insita nelle corde dei Disbelief la capacità di creare musica di altissimo livello tecnico-artistico. Del resto, la formazione dell’Hesse è nata nel 1990, il che indica l’ovvio possesso di un background culturale sterminato, struttura portante delle idee che si srotolano in “The Symbol of Death”.
In ogni caso, anche quando il mood è più asciutto e fangoso (‘Evil Ghosts’, ‘The Circle’), la mostruosa potenza della macchina-Disbelief è una delizia per la mente. Che può così assorbire quantità immani di energia da tramutare in splendide visioni oniriche, rese dal carattere allucinogeno intrinseco allo sludge metal. I due picchi rocciosi del disegno di copertina sembrano peraltro eretti dall’imponente riffing elaborato dalle chitarre di Alexander Hagenauer e David “Dave” Renner capaci, anche, di ricamare finissimi merletti a guisa di finitura di un suono davvero pazzesco (‘Shattered’, ‘Anthem for the Doomed’). Sin sovrumano, quando il ritmo dettato dal fabbro Fabian “Fab” Regmann rallenta fissandosi sulla pressione della doppia cassa per entrare nei paludosi territori del doom (‘Into Glory Ride’).
Nient’altro: stavolta i Disbelief hanno fatto il botto.
Daniele “dani66” D’Adamo