Recensione: The Symbol Remains
Tanto tuonò che piovve. Dopo le ristampe degli album più “recenti” (intesi come quelli degli ultimi decenni, dagli anni Novanta del secolo scorso in poi) e le proposte e le riproposte di ottimi album live e celebrativi, la Frontiers ha oggi l’onore di dare alle stampe il nuovo album d’inediti dei Blue Oyster Cult. Si tratta del primo studio-album della band dopo “Curse of the Hidden Mirror” di quasi due decadi fa.
“The Symbol Remains” è il titolo di questo nuovo full-length, ma va detto subito che dei Blue Oyster Cult rimane in splendida forma non solo – come il titolo sembrerebbe prefigurare – il simbolo, ma anche, in maniera davvero sorprendente, tutta la classe, l’inventiva e l’energia che l’ha resa celebre.
In questo disco – in linea, in fondo, con la politica fin qui seguita di ripercorrere, tramite ristampe e dischi dal vivo, sia i tratti salienti che le meno celebrate espressioni recenti del percorso stilistico del gruppo – la band a stelle e strisce prova, con successo (e con brio inimmaginabile) a ricreare le diverse atmosfere d che hanno sancito il successo della band in momenti differenti della sua lunga ed onorevole carriera.
Ecco, dunque, che Eric Bloom, Donald “Buck Dharma” Roeser e compagni, ci fanno riascoltare un heavy rock memore dei primi anni della loro carriera (ma anche di dischi meno celebrati come il recentemente ristampato “Heaven Forbid”) in tracce come That Was Me e There’s A Crime, dai riffoni duri e pesanti come macigni, o ancora come Stand And Fight, hard rock cupo assai, sebbene trafitto dai baleni di fulminanti saette chitarristiche .
Anche The Alchemist è un tenebroso heavy rock, dai contorni qui maggiormente teatrali, mentre la formidabile The Return Of St. Cecilia ci sottopone un rock duro dinamico e policromo con chitarre da urlo e dai passaggi quasi fusion.
D’altro canto, in “The Symbol Remains” non mancano i richiami al versante più orientato alla melodia, al pop-rock e, per certi versi, all’AOR dello stile dei BOC, che portò tanta fortuna alla formazione tra la fine dei Seventies e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Un pop-rock, sia chiaro, mai banale e consolatorio, ma, anzi, a tratti inquietante. Ne sono fulgidi esempi qui Edge Of The World, dai riff melodici catchy e deliziosi, nonché canzoni di squisita fattura come Secret Road, Fight e Box In My Head.
Train True (Lennie’s Song) e Nightmare Epiphany, addirittura, aggiungono toni veloci e frizzanti, nonché speziati di americana, roots e rockabilly.
Non mancano, poi, ballate come l’affascinante, raffinata e conturbante Tainted Blood e l’hard rock melodico di The Machine.
“The Symbol Remains”, dunque, certifica che, anche dopo decenni di attività, i Blue Oyster Cult sono ancora perfettamente in grado di esplicitare maestria, grinta, capacità compositiva ed eclettismo. Gli intrecci di chitarre, tra loro e con il piano e le tastiere, la carica della sezione ritmica, la gradevolezza delle melodie sono incastonati qui all’interno di esecuzioni ingegnose e magistrali che, pur senza ripetere i fasti del glorioso passato, riescono a passare in rassegna le suggestioni stilistiche che hanno caratterizzato la storia artistica del gruppo, con una piacevolezza ed una effervescenza sorprendenti anzichenò.
Francesco Maraglino