Recensione: The Talas Of Satan

Di Fabrizio Meo - 18 Aprile 2014 - 19:35
The Talas Of Satan
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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79

« […]Quale attributo aggiungerò? Quale, se non Arcifolli? Con quale altro più nobile appellativo potrebbe la dea Follia chiamare i suoi iniziati?[… ] Passate in rassegna tutto il cielo, e possa chiunque infamare il mio nome se si troverà un solo Dio non privo di grazia e di pregio che non sia sotto la protezione del mio nume[…] ».

(Erasmo da Rotterdam – Elogio della Follia)

N.B. è un presidio medico chirurgico, può avere effetti indesiderati anche gravi, leggere attentamente il foglio illustrativo, non somministrare a persone affette da catalessi da stereotipo (da leggere velocemente).

Esistono soggetti per cui Houdini è una fiaba mal raccontata, e la camicia di forza una comodissima maglia della salute che può all’occorrenza trasformarsi in una polo bianca in lana merinos da sfoggiare nelle serate di gala. È questo il caso degli Hardcore Anal Hydrogen (“Fork You”, 2009, “Division Zero”, 2011). Si certo! Ho detto proprio Hardcore Anal Hydrogen:

«…Il nostro nome prima di tutto è parte della sigla HAH, che suona bene. Hydrogen simboleggia il potere: combustibile per razzi, ma anche le bombe all’idrogeno. Per Hardcore e Anal possiamo eventualmente passare a casa tua per mostrartelo se vuoi…».

Risolto esaustivamente l’enigma del nome, passerei a parlare del più che bizzarro “The Talas Of Satan” (anche qui ci sarebbe da parlare del titolo, ma l’art work compensa abbastanza), un disco straniante, di quelli con l’occhio fermo sul mirino a ridurre la distanza da ogni cosa, annullando concettualizzazioni facili e slegando affinità ovvie per generarne di nuove.

Fondamentale in tale progetto è il ruolo della musica elettronica, che nella sua vasta gamma di soluzioni compositive ed esornative, riesce a narrare stupendamente la vicenda del treno deragliato della ragione. Le rassicuranti strutture che intelletto, udito e cuore ricercano assiduamente per natura, come upupe l’albero per il nido, subiscono gli scossoni tellurici d’un esperimento sonico estremo e inarrestabile che ha il suo epicentro nell’isteria creativa.

Vi è mai capitato da bambini di perdervi nella confusione di una cerimonia e di non riuscire a trovare i vostri genitori, vagando tra imponenti Sean Connery dei poveri che di spalle sembravano vostro padre e strattonando le gonne delle donne sbagliate? Se si, sappiate che qui non li ritroverete, perché i vostri genitori sono partiti per la Papua Nuova Guinea e non torneranno mai più. Nell’istante stesso in cui le rotaie di questo disco strideranno sui vostri binari d’ascolto, ingerirete improvvisamente una capsula psicoattiva che stringevate inconsciamente nella mano destra,

precipitando in uno stato ossimorico delirante d’euforia e sbigottimento. “Dhamar”, “Ramahd”, “Kalakaka”, “Rupack”, “COI”, groove-industrial, grind, hardcore punk, mathcore vagamente dillingeriano, dissonanze strambe, rallentamenti elettrificati, break-down ‘scratchianti’ dal sapore dub step, sonorità campionate, tribalismi leggeri, soavi intrusioni etniche orientaleggianti tra flauti, sitar, huqin, xiao (a tratti ci viene quasi voglia di prostrarci a Shiva o Buddha), e schizofreniche urla filtrate dispensate a più non posso (una sorta di strumento aggiunto al caos), plasmeranno dimensioni parallele e controverse.  

Peculiari saranno a tal proposito tracce come “Release The Crackhead”, in cui ad un feroce blast beat tipicamente death con tanto di voce aliena e luciferina, si sovrappone una cadenzata base rap all’insegna dell’insania, “Pentamère”, una illusione ipnagogica del Sol Levante, dolce e misterica , l’indicibile “????”, ballata acustica interpretata da una tarantolata in preda al delirio, o “Coq au vin” che meriterebbe un premio a parte non solo per la sua ilarità (era da “Tengo ‘na minchia tanta” di Frank Zappa che non ridevo così di gusto). 

Quella degli HAH è in definitiva una proposta avant-garde  complessa, demenziale, etnica, composita, ironica ed iconoclasta, nonché una chiara dimostrazione che laddove germinano idee, ventidue minuti sono più che sufficienti per stupire e sconvolgere, con una quantità d’elementi che concentrata in tempi ristretti, giunge con continuità assestando colpi rapidi quanto efficaci.

Dunque, “The Talas Of Satan”, non può che appagare le menti più malate, deviate e fameliche, continuamente alla ricerca dell’eccentrismo assoluto e dello sperimentalismo che esula da ogni emisfero conosciuto.

Agli HAH, che annoverano tra i loro mentori John Cage, Morricone, Stravinsky, Messiaen, Schoenberg, Debussy, Mr. Bungle, Periphery, Napalm Death ecc. Non posso che dire con il cuore in mano.

Cercate di non farvi arrestare ragazzi, abbiamo bisogno di voi.

Fabrizio Meo

 

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