Recensione: The Testament
Nuovo e sesto album in carriera per i Seventh Wonder, band che ha superato i vent’anni di carriera e ormai è ben nota ai progster di tutto il mondo dopo l’exploit a nome Mercy Falls. Ciò che caratterizza il combo svedese, oltre alla presenza di Tommy Karevik, sono le linee di basso di Andreas Blomqvist (anche in forze agli Zero Hour) e il suono dei sintetizzatori a opera di Andreas Söderin, il tutto condito da un guitarwork compatto e un drumming vicino al power metal. The Testament è un disco meno immediato di Tiara (il concept autoconclusivo che ha segnato il ritorno della band dopo alcuni anni di assenza), non è ai livelli del già citato Mercy Falls e The Great Escape, ma è comunque un buon disco, che prevede anche una pregevole traccia strumentale (leggete la nostra intervista per saperne di più a riguardo).
I primi dieci minuti dell’album sono quanto di meglio possano proporci i Seventh Wonder oggi. “Warriors” incede con ritmiche potenti, ottimi inserti di sintetizzatore e linee di basso caratteristiche. La ricerca melodica è incarnata da Karevik, che non strafà (e perché dovrebbe?), bellissimo poi l’unisono nella seconda parte del brano, che si rivela un inno che farà faville on stage. Anche “The Light” presenta la giusta durezza metal sposata a certo rock catchy. Karevik ha più spazio per sfoderare la sua potenza vocale, specie nel ritornello (come sempre trascinante) e nel finale. All’inizio del quinto minuto i bassisti avranno di che gioire per il momento solista di Blomqvist, subito seguito da quello a firma Söderin.
Dopo tanta adrenalina ci aspettiamo un momento interlocutorio e allora “I Carry The Blame” si avvia con note semiacustiche e si avverte la vicinanza con il precedente Tiara. Ritroviamo le seconde voci a supporto di Karevik, gli unisoni ma anche una sezione strumentale intricata degna dei cugini Sieges Even/Subsignal. Forse sei minuti sono troppi per questa pseudo-ballad ma non è un problema vista la qualità messa in campo… Note di pianoforte danno il la a “Reflections”, poi il tema è introdotto dalla chitarra solista e scopriamo di essere all’ascolto di un brano strumentale e che strumentale! Siamo ampiamente sopra a “Enigma Machine” dei Dream Theater ma un filo sotto alla perfezione folle di “Morphing into nothing” degli Andromeda o al meglio dei LTE. Tutti i progster anni Novanta ameranno questo pezzo, incluso la sua chiusura bassistica.
L’ultima mezzora dell’album prevede cinque brani dai diversi minutaggi.
“The Red River” è forse il più heavy in scaletta, Stefan Norgren può aggiungere fill al suo drumming mentre le tastiere una volta tanto hanno uno spazio minore. “Invincible” è il pezzo più corto, una potenziale hit da non sottovalutare. Tutto è ben confezionato: l’attacco virtuosistico, le strofe dal buon groove e con tempi dispari, e ovviamente l’ennesimo refrain ipermelodico. Siamo di fronte alla quintessenza del sound Seventh Wonder, potenza, eleganza e positività trascinante.
Anche l’introduzione di “Mindkiller” (60 secondi esatti) è da manuale, del resto il pezzo resta in mente per via della curiosa linea vocale del ritornello, con gli acuti al limite di Karevik. La sezione strumentale tra quarto e quinto minuto è per palati fini, i musicisti si divertono nello scambiarsi gli assoli e noi con loro. Da segnalare da ultimo alcune finezze di batteria nei secondi finali del brano che torna a farsi un minimo oscuro. “Under A Clear Blue Sky” con i suoi nove minuti circa è il brano più ambizioso di The Testament. Al suo interno ci sono rimandi a band come Threshold e Ayreon (vedasi hammond al min. 3:50); il brano si smorza e poi risorge inesorabile dipingendo un labirinto sonoro a tratti claustrofobico ma sempre raffinato. Il platter poteva finire dopo un simile sfoggio di tecnica, invece in coda troviamo “Elegy”. Per un attimo pensiamo si materializzi Roy Khan per un duetto fantasma, ma è la mera voce di Karevik a cullarci in questi minuti conclusivi dal sapore fatato e metafisico che si lasciano in stato di grazia.
Il prog. non è morto, i Seventh Wonder insieme ai Circus Maximus e agli Andromeda (a quando il loro prossimo album?) continuano a proporre il loro sound fuori dal tempo fatto di melodia, spigolosità e virtuosismo. Per alcuni sono una delle tante versioni minori della band di John Petrucci, in realtà stiamo parlando di un gruppo che sa suonare e divertire e questo è ciò che conta.