Recensione: The Tide of Death and Fractured Dreams
Gli Ingested, bontà loro, fanno parte di quel ristretto club di band che hanno saputo evolversi parallelamente al passare del tempo. Partiti nell’ormai lontano 2006 come semplice band di death metal e poi di brutal, si trovano ora di essere nella condizione di suonare uno stile se non modernissimo, moderno: il deathcore.
Il lungo periodo di attività, costellato dalla produzione di otto LP di cui “The Tide of Death and Fractured Dreams” è l’ultimogenito, ha consentito loro di adattarsi alle novità che via via, hanno trasformato il death metal dalla sua connotazione iniziale. Un adattamento che però non ha mai cancellato completamente il passato con il il risultato che, ora, lo stile del combo britannico è sì attuale e al passo con i tempi ma, anche, con un occhio di riguardo alle origini.
L’elaborazione di una foggia musicale definitiva non è mai facile, soprattutto se punto di arrivo di un cammino pregresso. I Nostri riescono a centrare questo obiettivo grazie fondamentalmente a una buona dose di talento e a una forza di coesione pressoché totale, giacché essi sono insieme sin dall’inizio del progetto. Con una conseguente grande dose di feeling che fa di un gruppo di persone un’unica mente pensante, un unico corpo che agisce.
Jason Evans e Sean Hynes, pure chitarrista, producono delle linee vocali assai variegate e mobili, che abbracciano praticamente tutti, o quasi, i modi di cantare tipici del metal estremo (growling, harsh vocals, inhale). Una conduzione variegata che traina un musica possente, fresca, pure essa caleidoscopica, inframmezzata da inserti ambient ma non solo. L’affilatura della lama *-core è irreprensibile seppure presenti, come già osservato, qualche rigurgito puramente death. Il sound è poderoso, a tratti violentissimo quando Lyn Jeffs scatena i suoi tanto micidiali quanto precisi blast-beats.
È importante osservare, in quanto trattasi di una delle peculiarità del deathcore, la presenza di terrificanti stop’n’go che spezzano le ossa. Breakdown lentissimi che premono le molecole dell’aria generano in essa onde di pressione pazzesche (‘Expect to Fail’, per mettere giù un esempio). Un vero piacere, per gli appassionati di questo particolare dettame. Ma anche nei mid-tempo la monumentale furia del riffing, dai toni abbassati come esige il genere, conduce alla nascita di una selva di accordi granitici, massicci, che erigono un vasto muraglione di suono, i cui estremi non sono dati di scorgere.
Il deathcore, fra le sue peculiarità, ammette anche la melodia. Anche in tal caso di quella dura, riottosa, ma comunque imprescindibile aiuto, almeno a parere di chi scrive, per aiutare a spararla diretta in testa, così come avviene in ‘Starve the Fire’, tormentone, se così si può osare affermare in questo contesto, del disco.
Non mancano nemmeno improvvise aperture sempre melodiche, allietate dalle orchestrazioni e dal suono morbido e caldo delle chitarre, come accade nel meraviglioso brano strumentale ‘Numinous’. Chiara estrinsecazione del ridetto talento, in questo caso lievito fecondante per il songwriting. Il quale, oltre a disegnare un marchio di fabbrica unico, riconoscibile con facilità in mezzo a quello degli altri act che praticano il metal estremo, consente di elaborare dieci brani piuttosto vari, dotati di una ben definita personalità, assimilabili con facilità per ricordarli a lungo. Altro esempio di poliedricità si ravvisa in ‘In Nothingness’, il cui il ritornello ricorda addirittura il grunge (sic!).
Detto questo, occorre sia chiaro che il mood dell’LP occorre sia votato in primis, all’erogazione di una dose massiccia di watt. Prima la possanza, la vigoria, la robustezza della struttura musicale. Poi i ricami, gli abbellimenti, i ghirigori.
“The Tide of Death and Fractured Dreams” è un’opera in cui gli Ingested mettono a giorno tutte le loro capacità sia tecniche, sia artistiche. Che sono rilevanti. Manca un po’ una continuità nell’impianto delle song: alcune sono straordinarie, altre meno esplosive. Un difetto che non inficia il valore del lavoro, giacché anche gli episodi normali sono comunque di alto livello, nonostante siano compositivamente… normali.
Daniele “dani66” D’Adamo