Recensione: The Tower of the Morbid
Frutto dell’incredibile prolificità di quel genio di Rogga Johansson, impegnato in mille progetti diversi compreso il suo solista, i Paganizer possono vantare una sterminata discografica pur essendo nati solamente nel 1998. Ultimogenito, l’undicesimo full-length, “The Tower of the Morbid”.
Esso, come gli altri, vera incarnazione dello swedish death metal. Quello puro, da voce enciclopedica, la cui tradizione è portata avanti nel tempo da Johansson stesso, la cui fede in materia è incrollabilmente devota per un sound che è leggenda.
Fra le tante emanazione della sua mente, sono proprio i Paganizer che garantiscono la sussistenza del marchio DOCG (Denominazione d’Origine Controllata e Garantita) per un genere nato nel primo quinquennio del 1990 e che ha letteralmente spopolato nel Mondo intero in concomitanza con il suo periodo di massimo fulgore (Dissection, Entombed, Dismember, Unleashed). Poi, ovviamente, come spesso accade, la lenta discesa nell’oblio, da cui, ultimamente, stanno di nuovo uscendo formazioni che stanno riportando il genere medesimo se non agli antichi fasti, almeno a un livello di notorietà degno del retaggio di un’era passata: Bloodbath, Repugnant e, guarda caso, Paganizer.
Paganizer che mostrano, di primo acchito, la loro superficie superiore; la scorza che, immediatamente, ha la forza di far viaggiare nel tempo per percepire a pelle la grandezza di uno stile che non potrà mai essere dimenticato. Anzi, come più su accennato, la manifattura in materia continua a essere abbondante e più che sufficiente a entrare un universo i cui astri sono cripte, tombe, ragnatele, ragni, cadaveri mummificati. Un microcosmo reso tangibile, proprio, dall’opera di gente come Johansson, incurante dei lustri che via via scorrono sotto i piedi dell’Umanità., refrattari a ogni forma di evoluzionismo, a ogni acchito d’innovazione.
Difatti, “The Tower of the Morbid” non propone nulla di quanto non sia già stato proposto sul campo. Occorre evidenziare che non si possono discutere né tecnica – elevata, anche se non si è nel rarefatto campo del technical death metal – né attitudine, né fedeltà a degli stilemi assolutamente inamovibili. Non solo, l’immenso retroterra culturale presente alle spalle dei Nostri consente loro di sciorinare con la massima perfezione possibile un marchio di fabbrica irreprensibilmente disegnato in tutti i suoi particolari, sì da dare luogo a un sound altamente caratteristico.
‘Flesh Tornado’, l’opener-track, maciulla immediatamente membra, carne e ossa con la furia devastatrice di un drumming violentissimo, che assai spesso travolge la barriera dei blast, ma che – fatto ancora più importante – si srotola nel caratteristico anzi unico groove fatto di up-tempo in quattro quarti… trascinati sui piedi. Qualcosa che è difficile esprimere a parole ma che, assieme al riffing delle chitarre, alimenta una foggia artistica impareggiabile sulla faccia della Terra. Chitarre sempre in azione, dal suono zanzaresco perlomeno in fase ritmica, a erigere una struttura grezza, dura, pesante. In cima, il tono stentoreo di Johansson, che itera un modo di cantare arcaico, generato a pieni polmoni comprimendo la laringe, senza cioè addentrarsi in growling, inhale, harsh vocals o robe del genere.
Le song, che come un trenino seguono allineate e compatte la ridetta ‘Flesh Tornado’, non sono eccezionali come il suono della musica, giacché intrappolate in un songwriting che lascia poco spazio all’immaginazione. Esse, tuttavia, sono state composte sì con rigore stilistico ma anche seguendo un filo conduttore che non mostra alcun’altra direzione se non quella dritta in avanti; con che risultando compatte, cementate, che scorrono via lisce, senza intoppi, risultando alla fine più che sufficienti per un piacevole ascolto di puro swedish death metal.
Ce ne fosse, di gente come Rogga Johansson…
Daniele “dani66” D’Adamo