Recensione: The Tree of Death
Un parco rintocco di campane scandisce la semplice vita di una comunità di campagna. Esistenza austera, che nasconde però rituali pagani, e un occultismo fatto di perversioni profonde. Così vi rappresentiamo l’ultima fatica in studio dei cileni Condenados, progetto dedito ad un doom metal di scuola classica, con svariate epiche digressioni heavy. Come non citare allora Candlemass, unitamente ad alcuni sparute divagazioni rock, come da scuola Paul Chain.
Chiaramente siamo nell’ordine di sfumature, di segni che rientrano perfettamente nel bagaglio culturale del genere. A parte l’episodio più ritmato “Demon’s Head”, in tutto il full-lenght regna il pesante passo del filone, un negromante che angoscia e che con la sola presenza incute timore e rispetto.
Natura disadorna si colora di autunnali colori, comunità ormai dimentica in cui fragilità, insicurezze e superstizioni si manifestano in una spietata intolleranza. Tutto ciò, poi, si sfoga in riti inusuali, come se qualcosa dapprima soffocato venga lasciato sfogare senza controllo. Notti tribolate, catene trascinate, sonagli suonati in stato di incoscienza.
Incubi si manifestano in ombre, catarsi iconoclasta in cui nuovi idoli si impossessano della ragione e dell’anima. Il full-lengt avanza così, inarrestabile, forte di convinzioni inveterate, morte che alimenta radici antiche di anni.
Doom in ogni manifestazione, “The Tree of Death” è la trasfigurazione di ciò che è essenza in questo sound. Corposità, quindi, e sviluppi assai lunghi che faranno la gioia degli adepti, senza rompere alcun schema o certezza. I punti in comune con Solitude Aeturnus, Saint Vitus ed i già sopra citati Candlemass sono tanti, e se amate queste band andrete a colpo sicuro con i Condenados, appannaggio di una cerchia che non va cercando elementi distintivi.
Stefano “Thiess” Santamaria