Recensione: The Ultra Zone
Vai riesce a regalare alla ormai vasta legione di fan un album niente male, proprio in un periodo in cui è pieno di impegni e collaborazioni con Gregg Bissonette, Al Di Meola, Joe Jackson,Walt Dysney, la sponsorizzazione del suo Wah Pedal, le sue date dal vivo e quelle con il G3.
“The ultra zone”, dalla solita variopinta copertina in pieno “Vai style” è un disco che scorre, che a tratti forse distrae dall’ascolto ma riesce nei suoi “topic moment” ad attirare l’attenzione verso i diffusori.
Questo lavoro, che si potrebbe avvicinare ad un “Fire garden” più pulito e conciso, parte con un pezzo leggero ma convincente, “The blood and tears”, che sfuma a tratti in ambienti orientali, ripresi poi con metodo durante l’album.
Neanche il tempo di adagiarsi ed è subito il turno della title track, avvolgente ed incalzante, che forse farà storcere il naso a qualcuno per la sua venatura ritmica vagamente à la Prodigy, ma sfido qualunque “Guitar hero” a scrivere un pezzo cosi trascinante e pieno di sensazioni.
Sulla linea della sperimentazione troviamo “0000” la prima traccia ad introdurre un’altra tipologia di atmosfere ricorrenti, quelle acid.
Riff tanto semplice quanto commovente quello di “Frank” (song composta in memoria di Zappa), che introduce alla perfezione l’effervescenza di “Jibboom”, altro omaggio, stavolta a Stevie Ray Vaughan, un pezzo che oserei definire “speed blues”, che ricorda vagamente il tema centrale de “La villa strangiato” dei Rush. Continua il viaggio acido come suggerisce il titolo di “Voodoo Acid”, cantato in maniera buona e disimpegnata dallo stesso Vai, che ha anche il compito di introdurre una delle perle del disco. Come ormai si sa Steve riserva un particolare trattamento alle tracce “7” dei suoi dischi, tanto che dedicherà loro un album intero nel 2000 (“The 7th Song”), che le raccoglierà tutte. Beh anche questa volta non delude le aspettative, “Windows To The Soul” è magnifica, al pari di “Touching Toungues” e “For The Love Of God” tanto per citarne un paio. Il viaggio all’interno dell’anima del chitarrista alieno è sublime e toccante. In queste ballad Steve coglie sempre nel segno, ed anche dal modo in cui le suona traspare costantemente una consapevolezza d’innalzamento del suo stesso spirito verso un’ispirazione suprema che raramente sfiora gli esseri umani.
Il resto del lavoro lo fanno “The Silent Within”, “Lucky Charms” e “Fever Dream”. La prima, successiva a “Windows To The Soul”, ne riprende le tematiche introspettive con l’aggiunta del cantato; la seconda anima il disco con i suoi ottimi arrangiamenti da musical e la terza infervora il prefinale con il ritmo sostenuto di una buona composizione Hard Rock.
Insomma, “The ultra zone” mi sembra più che riuscito. I titoli a mio parere non degni di nota sono solo tre su tredici, ed inoltre c’è da precisare che questo album si arricchisce della presenza di Mike Mangini, Philip Bynoe e Robin Di Maggio su tutti.
Sicuramente da avere e da ascoltare anche con un approccio meno critico.
Nel caso seguiste il consiglio… Buon ascolto.