Recensione: The Underworld Awaits Us All
Il nuovo lavoro dei Nile esce dopo una pausa di ben cinque anni, e conferma il fatto che le cose di un certo livello richiedano il giusto tempo di gestazione. Cambia il bassista, fuori Brad Parris dentro Dan Vadim Von; cambia la label, fuori la Nuclear Blast in favore della Napalm Records, ma la band di Greenville non cambia affatto. Karl, George e Brian sono l’anima di questa nuova formazione, che ritorna alla decima prova in studio più potente che mai. Già l’artwork, probabilmente il migliore mai avuto, è una chiara dichiarazione di intenti e rispecchia in maniera adeguata ciò che andrete ad ascoltare.
Sono dieci i brani proposti, con un piccolo intermezzo, per cinquantatré minuti di musica. Pochi fronzoli, il disco si apre con Stelae of Vultures ed è un vero e proprio pugno in faccia per tutta la durata della tracklist. Il livello tecnico-compositivo è come sempre altissimo ma, di primo acchito, si ha l’impressione che questo The Underworld Awaits Us All abbia una marcia in più, e così sarà alla luce di moltissimi ascolti.
L’intermezzo, dopo i primi quattro brani, non è messo a caso, anzi: c’è una chiara separazione tra la prima parte, più brutale e in your face, e la seconda, più oscura e opprimente. Ed è proprio quest’ultima a rendere il disco una piccola perla: non siamo ai livelli di In Their Darkened Shrines, ovvio, ma dal 2005 è difficile trovare dei Nile migliori di questi, provare per credere. Già Naqada II Enter the Golden Age è una bomba a mano; vogliamo parlare dei cori di Overlords of the Black Earth, che sembrano uscire direttamente dalla sabbia con una pioggia di scorpioni? L’accoppiata True Gods of the Desert e The Underworld Awaits Us All raggiunge poi picchi di eccellenza assoluta e conferma la capacità di Sanders e soci di saper scrivere grandissimi brani dal minutaggio più esteso. Chiude le ostilità la strumentale Lament for the Destruction of Time, che avrebbe anche potuto non esserci e non avrebbe comunque inficiato un album con già tantissima carne al fuoco.
Immancabili anche le supercazzole nei titoli delle canzoni, qui solo una ma emblematica: Chapter for Not Being Hung Upside Down on a Stake in the Underworld and Made to Eat Feces by the Four Apes.
The Underworld Awaits Us All è quindi un ottimo lavoro su tutti i livelli e in grado di dare una nuova identità ai Nile che, sette anni dopo l’abbandono di Dallas Toler-Wade, trovano la quadratura del cerchio con un ritorno memorabile e appagante. Potremmo avere qualcosa da ridire sulla produzione, che risulta troppo pulita e pacata per un disco come questo e che, pur guadagnando punti in pulizia, perde parecchio in pacca e ignoranza; ci si passa comunque sopra e, una volta fatta l’abitudine, non ci si pensa più. Chi pensava che i Nile fossero finiti, qui troverà pane per i suoi denti e un’ottima occasione per ricredersi; quanto a noi, ci auguriamo di poter sentire parecchi estratti del disco nel tour che passera dall’Italia tra pochissimo. Nel frattempo premiamo play ancora una volta e godiamoci questo tormentone estivo. E il reggaeton muto, anzi, sepolto.