Recensione: The Valley
Benvenuti a The Valley, lasciate ogni speranza (di tornare con i nervi del collo sani) voi ch’entrate. I Whitechapel sono tornati e nel caso dovessero servire presentazioni e quindi abbiate vissuto in una caverna sino ad oggi, lasciate che vi dia due numerini. Gli americani hanno raggiunto la vetta del deathcore con la stessa velocità delle loro canzoni, capitanati da un frontman eccezionale come Phil Bozeman, in grado di sputare le tonsille da oltre 10 anni e riuscire dove molti hanno e tuttora falliscono, ovvero mettere d’accordo. Oltre 1 milione di followers su Facebook, 430.000 ascoltatori mensili su Spotify, vagonate di dischi venduti, concerti sold out e 6 album che sono uno meglio dell’altro e rappresentano anche il modo migliore per farvi sanguinare i timpani. Ma questo, almeno per ora, non importa. The Valley è il settimo sigillo, arrivato dopo 3 anni dal precedente e straordinario Mark Of The Blade, ma se pensate che la band si sia adagiata sugli allori vi ricrederete ben presto.
L’album si apre con When A Demon Defiles A Witch, opener ideale che sembra definire nei suoi 5 minuti l’essenza del sound della band a stelle e strisce. Bozeman si ripresenta con il suo trademark, una voce gutturale che sfonda ogni preconcetto, sorretta alla perfezione da un combo strumentale composto da tre chitarre e un basso. Alla batteria troviamo (per l’occasione) Navene Koperweis (ex Animals As Leaders e Animosity), il quale dona il suo batterismo preciso e devastante, senza snaturare la tessitura ritmica tanto cara alla band. Proprio mentre cominciamo a far brillare gli occhi per quello che è senza dubbio uno dei punti forti del disco, ecco far capolino la voce pulita di Bozeman. La sua non è una voce pulita qualsiasi però, infatti dimostra come sia in grado di attraversare un range canoro di 360° senza alcun problema e passare da un growl cupo e profondo a ritornelli che ti entrano in testa dopo pochi secondi. Forgiveness Is Weakness è potenzialmente una devastante arma live, dove ancora una volta il frontman sputa fuori tutta la violenza repressa nel corso della sua infanzia e proprio questa è la chiave di lettura dell’intero album, peraltro anticipata nella stessa copertina. Potremmo definirli eventi realmente accaduti che hanno ispirato cotanta violenza musicale, valvola di sfogo definitiva che dimostra come trasformare i sentimenti in arte. E la musica è proprio questo. I fatti che hanno ispirato la successiva Brimstone, per esempio, quelli devono essere davvero funesti, perché si sconfina quasi nel brutal e nonostante sia meno veloce, offre ad una ritmica cadenzata tutta la propria ossessione e la voglia di massacrare ciò che gli sta attorno. Discorso differente per Hickory Creek, sorretta anche da un video e che introduce un nuovo elemento nel songwriting dei Whitechapel. È tutta cantata con voce pulita, con ritmiche groove, ma al tempo stesso mantiene immutata la rabbia e la malinconia che impregna l’intero disco.
Quasi al giro di boa, i Whitechapel sono qui a ricordarvi che non intendono mollare la presa e Black Bear riprende i sentieri di violenza inaudita e li sottopone ad un trattamento a base di un mid-tempo letale. Non c’è tregua, se speravate di tirare il fiato avete sbagliato città e We Are One vi arriva addosso veloce come un fulmine, dura come un pugno in mezzo agli occhi e inaspettata come un infarto. Rendo l’idea? É semplicemente pazzesca e strumentalmente oltre ogni più feroce concetto di estremo. Insomma, arrivati a questo punto si sarà capito l’indubbio spessore di un disco che si è fatto attendere, ma che arriva con un sound profondo e che mette in risalto ogni singolo strumento, il tutto sorretto dalla performance di un singer che ha dell’incredibile, sia a livello compositivo che a livello di contenuti. Il quartetto di canzoni che rimane apre ulteriormente le porte ad un songwriting privo di preconcetti, con la veloce e chirurgica The Other Side, la drammaticità di Third Depth, in cui torna la voce pulita, ma si alterna con un growl profondo e forsennato. Lovelace è una continua bastonata sulla schiena e alterna parti più tradizionalmente death ad un ritornello melodico che riesce a ficcarsi nel cervello e riecheggiare anche quando avrete spento il lettore cd. Si conclude il nostro soggiorno a The Valley con Doom Woods, il brano strutturalmente più complesso e liricamente più tormentato dell’album. La stessa canzone chiude un cerchio che significa molto per i Whitechapel, rappresentando un brano maturo e che trasmette le mille sfaccettature di questo nuovo capitolo.
E proprio The Valley rappresenta un nodo fondamentale nella discografia del gruppo, non solo perché si tratta di un disco fenomenale, ma anche perché si pone come un potenziale bivio per il sound futuro della band. Bozeman è a livelli davvero incredibili e mette tutta la sua grinta in dieci canzoni che non hanno apparenti punti deboli. Corrono quando è il caso, spaccano quando ve lo aspettate, ma sanno anche sorprendere senza tradire le radici della band, ancora una volta portabandiera di un genere perennemente a rischio di suonare stantio oppure fine a se stesso. Questo è uno dei dischi migliori del 2019, è un urlo di vendetta, lo sfogo emotivo di chi ne ha passate tante ed è riuscito a dimostrare che certi eventi drammatici possono essere catalizzati e dar vita a qualcosa di artisticamente eccezionale. Chapeau.
Brani chiave: When A Demon Defiles A Witch / Hickory Creek / We Are One