Recensione: The Voice Of Human Perversity
Scena europea che non finisce mai di stupire!
Ormai siamo giunti al punto di non ritorno legato alla situazione politica e sociale attuale, che ogni nazione europea ha dei ‘rappresentanti’ che sputano e sfogano la loro rabbia grazie alla musica estrema. E non sotto forma di un ‘si salvi chi può’, pensando a dei ragazzini alle prime armi, che forti di prove nel garage di turno, si presentano proponendo incoscientemente del materiale debole e sterile.
O perlomeno non lo è nel caso degli Enthrallment, band attiva del 1998 e proveniente dalla Bulgaria, che ha come biglietto da visita tre full-length. Ma imbattendosi nel loro quarto album “The Voice Of Human Perversity“ si potrà rimanere piacevolmente sorpresi dalle capacità non solo tecniche dei cinque musicisti, ma anche da un sound grezzo e personale, che (a tratti) non ha nulla da invidiare a ben più famose e blasonate band.
Il discorso messo in campo dagli Enthrallment sin dai primordi è un brutal death metal di stampo ‘classico’, che trova radici nei Cannibal Corpse in primis, e che sprizza aperture grindcore. Quest’ultimo capitolo mostra invece uno spostamento verso ambiti più melodici…per alcuni versi!
Soprattutto i riff di chitarra prendono spesso direzioni inaspettate, dal ‘melodic’ svedese (“Rats Before The Worms”, Stench Of Burnt Down Sanctuary”, “Tones Of Gladness”) al vero e proprio riffing, segno distintivo della band, veloce e grezzo. Buonissima la prova di Ivanov, batterista capace di imprimere ottime accelerazioni e cambi di tempo, mantenendo un suono vivo e reale, senza troppi ritocchi in fase di missaggio (“Rove In Hell”, “Rats Before The Worms”).
Non mancano momenti ‘melodici’ anche nei soli di chitarra dell’accoppiata Furnigov/Gegov (“Mummified Ante Mortem” “Rove In Hell”), e armonizzate nell’intro “Madness Coloured In Light”, dove subito cambiano direzione, fino a condurci in un sentiero complesso e tormentato, sotto il fuoco di Ivanov e i riff sempre aggressivi e ben congeniati, che nell’insieme girano ‘a dovere’. La conclusiva “Tool Of Suicide” inizia con uno slow-time che subito rimette in gioco Plamen Bakardzhiev, la voce dall’oltretomba, che si dimena nel suo growl cavernicolo, di buona fattura per tutto l’intero disco.
Non aspettatevi colori e innovazioni, i Nostri suonano con anima e cognizione di causa, proponendo un disco fruibile e (abbastanza) vario, che fa della violenza la base di fondo, e che rende omaggio ai padri del genere, dall’America alla penisola scandinava con naturalezza e sapienza.
Bravi.
Vittorio “versus” Sabelli
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