Recensione: The Vortex
Nono album per il Caligola delle tastiere che con The Vortex dà continuità al precedente The Phoenix ed evita, così facendo, un altro lungo iato tra le sue uscite solistiche. Votato Greatest Keyboardist of the 21st century, Derek Sherinian ha ormai trent’anni di carriera alle spalle, fior di collaborazioni illustri e un seguito di fan fedeli all’essenza della sua musica, che vive di sonorità spaziali, rock, funk e fusion. Vortex è la continuazione dell’album precedente, alcuni pezzi erano già pronti nel 2020, tuttavia, avendo un sound diverso da quanto confluito in The Phoenix, Derek ha pensato di posticipare la pubblicazione del nuovo materiale e dar forma a un full-length di otto tracce, l’ultima lunga ben undici minuti.
A spalleggiare il mastermind statunitense troviamo, come prevedibile e auspicabile, il compagno di viaggio Simon Phillips, pure in veste di coproduttore e come supporto alla scrittura dei brani. Ogni parola sul drumwork del batterista ex-Toto è pleonastico, sappiamo di che finezze sonore è capace e anche questa volta conferma la sua fama di grande musicista e ingegnere del suono. Tony Franklin al basso è l’altra scelta di Derek per completare la base ritmica, che possiamo tranquillamente definire ineccepibile. Tra gli special guest questa volta non ci sono nomi eclatanti come Steve Vai o Yngwie Malmsteen, ma troviamo Zakk Wylde (già valorizzato in Mythology), Bumblefoot (Sons of Apollo), Joe Bonamassa (Black Country Communion) ma anche Steve Stevens (Billy Idol, Bozzio Levin Stevens), Nuno Bettencourt (Extreme, Generation Axe), Michael Schenker (Scorpions, UFO e Michael Schenker Group) e Mike Stern.
La titletrack in apertura vede subito impegnato Steve Stevens, alle prese con un brano rock-oriented, che ripropone il sound spaziale di Derek Sherinian, fatto di distorsori e atmosfere sci-fi. Sembra di essere tornati ai tempi di Inertia, ma siamo nel 2022! Come inizio non è niente male, tanta è l’energia sprigionata nei duelli chitarra-tastiera, peccato che il brano finisca in modo troppo brusco. In “Fire Horse” troviamo Nuno Bettencourt, che si diverte a dare la sua impronta a un brano ritmato a dovere dalle linee di basso di Tony Franklin. Da riascoltare la pirotecnica parte centrale, ma a volte basta anche un semplice hammond per stupire e Derek riesce ad alternare virtuosismo a trovate a effetto.
Con “Scorpion” il sound vira verso la fusion e di colpo sembriamo catapultati in un disco dei Planet X. Le note di pianoforte dialogano con le walking line di basso e la batteria di Simon Philips prende tinte jazz. Un intermezzo non privo di fascino, in definitiva, del resto in un album di Derek Sherinian si spazia tra generi musicali disparati. Si passa a navigare nei sette mari nella seguente “Seven Seas”, brano dalla base ritmica insinuante e ritroviamo Steve Stevens a dettar legge. Quello che stupisce e disorienta è la scelta di accostare un refrain granitico a delle strofe ricche di dissonanze che non tutti reggeranno di primo acchito. Probabilmente stiamo parlando del brano più impegnativo del disco, siete avvisati: ci sarebbe stata bene anche una comparsata di Allan Holdsworth come special guest… Immancabile una concessione al blues e così ecco materializzarsi una song che prevede gli assoli di Joe Bonamassa e di Steve Lukather, coppia potenzialmente devastante (ma Derek in passato era riuscito perfino a ospitare Zakk Wylde e Malmsteen in uno stesso pezzo). “Key Lime Blues” svolge il suo compito in modo onesto, si poteva fare di meglio, ma sentire le chitarre di questi due maestri della 6-corde resta un piacere.
Gli ultimi tre brani riservano ancora sorprese a cambi di atmosfera.
Dopo il rock, la fusion e il blues, “Die Kobra” è una traccia che strizza l’occhio al metal e richiama alla mente i fasti di Black Utopia. Oltre al grande Zakk Wylde a dare il tocco in più al pezzo sono le note tenute di Michael Schenker che creano momenti vicini al power metal che sanno di nostalgia allo stato puro. Derek è un fan del chitarrista ex-Scorpion e gli concede uno spazio solistico che lo valorizza al meglio. “Nomad’s Land” è il pezzo con Mike Stern alla chitarra. Parliamo di un mostro sacro, che ha collaborato con Miles Davis e Jaco Pastorius. Il brano di conseguenza è una sorta di jam dalle ritmiche complesse e continue incursioni solistiche tra chitarra e tastiera. In fase di mixaggio la chitarra di Stern è leggermente penalizzata, peccato, andava resa un filo più incisiva. E siamo all’ultimo brano, “Aurora Australis”: come preannunciato, è lungo undici minuti e anche questa volta troviamo Bumblefoot, già in forze ai Sons of Apollo, creatura nata attorno al duo Sherinian-Pornoy. La traccia s’avvia con note di pianoforte e si ispessisce via via in modo teatrale e imprevedibile. Come uno scultore alle prese con un blocco di marmo, Derek Sherinian si diverte a plasmare la materia sonora dandole la forma che più gli aggrada. Al quinto minuto il sintetizzatore utilizzato richiama vagamente quello di Michael Pinnella dei Symphony X; il sound si fa più claustrofobico e duro nella seconda parte del pezzo, con gli assoli spigolosi e ipertecnici di Bumblefoot. The Vortex si chiude tenendo fede alla visionarietà di Mr Sherinian e riportandoci circolarmente all’avvio della titletrack.
L’ascolto è finito, cosa possiamo dire dell’ultima fatica di Derek Sherinian? The Vortex è un disco che convince di più del precedente The Phoenix, risulta più coeso e riesce laddove il precedente disco aveva in parte deluso dopo diversi anni di attesa. Questa volta gli ospiti chiamati in causa sono meglio amalgamati all’interno di una tracklist che dosa al modo giusto le varie anime del tastierista statunitense. Gli auguriamo di continuare in questa direzione e coinvolgere altri virtuosi nei suoi prossimi lavori solisti. Aspettando il terzo capitolo dei Sons of Apollo!