Recensione: The Wanderer and his Shadow
Basta un breve ascolto per capire che la provenienza di questi Pantheon I non può essere altra che la Norvegia. Alcuni paesi hanno davvero adottato una musa tutta loro, adorandola e facendola crescere a tal punto da metterci una firma leggibile da chiunque abbia l’orecchio particolarmente fine. Death svedese o suicidal teutonico sono solamente alcuni dei trademark estremi europei, e come non scordarsi l’amico mai dimenticato che esplode in questo “The Wanderer and his Shadow”… l’avantgarde norvegese.
Tentando di seguire le tracce delle più grandi band di Oslo e Bergen, i Pantheon I saltano immediatamente a piè pari il passo del black più brutale, ormai evidentemente demodé nel mainstream, e si gettano nelle strutture complesse e multisfaccettate di quel post avantgarde che ha abbracciato l’intero paese fino a produrre album al limite dell’ascoltabile come il più recente Ulver o l’ultimo, misticissimo, Solefald post- Black for Death.
Le informazioni su questi Pantheon I scarseggiano, e oltre alla consapevolezza di una band giovane (fondata nel 2002), giunta ormai al secondo album e fondata da un ex-membro dei 1349, Tjalve (al secolo Andrè Kvebek), è difficile andare. Eppure la maestria di tutti i musicisti coinvolti nel progetto non tarda a manifestarsi. La tradizione musicale alla quale la band si consacra pesca a pezzi e bocconi dal post-black un po’ generico degli Arcturus, degli Old Man’s Child e perché no, persino dei 1349, la cui chitarra è una presenza ben più che aleatoria.
Ci troviamo quindi di fronte a un ennesimo esempio di black progressivo norvegese votato al mutamento costante di tempi e di modalità musicali. Impossibile prevedere le svolte di ogni singola melodia; impossibile prevedere durata e sviluppo di ogni singolo brano. Si potrebbe iniziare con il black furente degli Immortal e terminare con un sonnolento ambient, oppure potrebbero apparire, e potete contarci, dei lunghi passaggi folk nei quale il sapiente violino di una non meglio precisata “Gunhild” spadroneggia per minuti e minuti (“Where Angels Burn“).
La schizofrenia che ogni tanto cede persino allo psichedelico tuttavia non appare ben dosata. I brani sono estremamente disomogenei e il cantante Kvebek, nonostante ce la metta tutta, ha una voce monotona e dagli evidenti limiti di estensione in grado di rovinare alcune tracce e di renderne noiosamente effimere altre. È il vero grande problema di quest’album, nonostante l’indubbio talento compositivo del mastermind Sagstad e gli ospiti d’eccezione come Nachtgarm dei Negator ma soprattutto l’onnipresente Lazare che strattona con talmente tanta violenza “Coming to an End” donandole i suoi cori brevettati e il suo cantato pulito ed evocativo da trasformare il brano in un’estensione stessa dei Solefald o in una gustosa anteprima del prossimo, ormai leggendario, Àsmegin.
Gli amanti del black moderno e avanguardista avranno pane per i propri denti con questo “The Wanderer and His Shadow”. Coloro che non sono abituati a questo tipo di spin-off tutto scandinavo potranno anche rimanere colpiti dalla varietà e dalla relativa potenza immaginifica di alcune delle sue tracce. Purtroppo i cani più anziani e dall’occhio lungo riusciranno invece a scorgere tra le trame di quest’album un sound derivativo, stanco e in un certo qual modo parassita di un genere già ben delineato e molto complesso da approcciare.
Certo il lavoro intrattiene, se si passa sopra la voce del cantante obiettivamente a tratti fastidiosa, e tutto sommato nell’universo dell’avantgarde c’è ancora spazio per molti esponenti. Il rischio è che i Pantheon I siano il primo passo verso la saturazione, che potrebbe trasformare il genere di cui sono pioniere band come Vintersorg, Ulver, Arcturus, Borknagar, Dødheimsgard e via dicendo nel nuovo epic teutonico… o nel nuovo suicidal tedesco. Promossi con riserva.
TRACKLIST:
01. Origin of Sin
02. The Wanderer and his Shadow
03. Cyanide Storm
04. Coming to an End
05. Shedim
06. Where Angels Burn
07. My Curse
08. Chaos Incarnate