Recensione: The Whirlwind
Se ne erano perse le tracce dal 2001 e qualcuno cominciava a pensare che non ne avremmo più sentito parlare. E invece sono tornati. Fra gli ultimi propugnatori dell’ideale di superband progressive, i Transatlantic ricompaiono sugli scaffali con ‘The Whirlwind’, un autentico titano in musica. Quando due grafomani come Neal Morse e Roine Stolt uniscono le forze, in effetti, non c’è da aspettarsi nulla di particolarmente conciso – ma non è certo cosa di tutti i giorni trovarsi davanti un mostro di oltre 77 (sì, settantasette) minuti – divisi, per intercessione divina, in dodici tracce di estensione più modesta.
E di Morse e Stolt è indubbiamente l’impronta più forte sulla genesi di questa suite di proporzioni bibliche. Anche se il vulcanico Portnoy tende talvolta a lasciarsi prendere un po’ la mano pestando (relativamente) duro come piace a lui, ‘The Whirlwind’ è un’opera dalle tinte essenzialmente morbide, priva di inflessioni metalliche. Il suo background è fortemente radicato in quel neoprogressive inglese che tanto piace a Morse (e che Pete Trewavas porta avanti nei suoi Kino prima che nei Marillion), con un inequivocabile tocco Flower Kings a rendere il tutto più avvincente – indigesto, potrebbe dire qualcuno. In realtà la melodia la fa da padrona, al di là di qualche parentesi kingcrimsoniana d’ordinanza: tanto i cori di ‘The Wind Blew Them All Away’ quanto gli intrecci strumentali in bilico fra Genesis e Yes di ‘Evermore’ – a proposito, incantevole – sono esempi dei sapienti artifizi che rendono l’ascolto fluido e scorrevole.
Whirlwind, come si accorgeranno ben presto i filistei del progressive, non è un anatema contro gli outsider a esclusivo beneficio dei malati di sperimentazione strumentale – anche perché qui di sperimentazione se ne trova davvero poca. Al contrario, i suoi garbati intrecci di rock sinfonico e jazz attingono a grande equilibrio e sorprendente concretezza, evitando quella prolissità cui Neal Morse solista e The Flower Kings non sono affatto estranei. Provvidenziale, sebbene filologicamente discutibile, la suddivisione della suite in una dozzina di brani, che rende il primo impatto un poco meno minaccioso. Certo, non stiamo parlando di canzonette, e non è molto realistico credere di poter fare amicizia con ‘Whirlwind’ dopo una manciata di ascolti – cosa che del resto è giusta e buona. Resta il fatto che rispetto a certe produzioni band succitate il songwriting si muove attorno a lidi decisamente più abbordabili.
Si è parlato svariate volte di suite: in realtà è opportuna una precisazione. Sebbene i ponti fra un brano e l’altro suonino privi di forzature, l’impressione è che questo titano di note sia stato assemblato a posteriori attraverso una (sapiente) opera di ingegneria musicale, anziché nascere e svilupparsi progressivamente da un unico embrione. Il buon esito del collage, sia chiaro, è garantito dall’esperienza degli autori. Del resto, quando quttro professionisti di grande talento suonano assieme per puro spasso, liberi da pressioni o vincoli commerciali, difficile che l’esito rappresenti men che l’eccellenza. Ben poco si pul obiettare a un disco che propone alti come ‘Out Of The Night’ o ‘Lay Down Your Life’, squisite espressioni di un’attitudine rock maturata negli anni, che non sente il bisogno di scendere a compromessi con i suoni della modernità per creare qualcosa di – seriamente – grande. ‘The Whirlwind’ non inventa nulla, eppure si afferma come uno degli appuntamenti imprescindibili dell’anno e come termine di confronto necessario per chiunque voglia suonare progressive rock nel 2009.
Alla faccia del side-project.
Riccardo Angelini
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The Whirlwind:
I. Overture/Whirlwind
II. The Wind Blew Them All Away
III. On The Prowl
IV. A Man Can Feel
V. Out of the Night
VI. Rose Colored Glasses
VII. Evermore
VIII. Set Us Free
IX. Lay Down Your Life
X. Pieces of Heaven
XI. Is It Really Happening?
XII. Dancing With Eternal Glory/Whirlwind (reprise)