Recensione: The White Goddess
Ritornano i tedeschi Atlantean Codex, a poco più di tre anni di distanza dall’acclamato esordio The Golden Bough.
Il disco prosegue sulla linea epic, heavy, doom del predecessore. riuscendone a smussare alcune pecche. Tra queste, la più ricorrente era un certa ridondanza che, alla lunga, scaturiva nella noia, con il risultato che, pur nella sua oggettiva validità, The Golden Bough non ha resistito benissimo alla prova del tempo.
Il tratto più evidente che emerge da The White Goddess è, invece, il suo ricco dinamismo. Gli usuali pezzi cadenzati degli Altantean Codex si alternano, infatti, a ritmi sostenuti, il tutto condito da una notevole varietà compositiva e, seppur in misura minore, negli arrangiamenti.
I testi, invece, restano simili a se stessi, nella pervicace difesa dei valori tradizionali europei che gli Altantean Codex conducono da sempre. Lo splendido booklet, che richiama un codice miniato medievale, è coerente con i temi trattati, a cavallo tra il teologico e il mitologico.
Epic metal, dunque. Ma quale epic metal suonano gli Atlantean Codex? Sembrerà strano, eppure davvero uno dei sottogeneri più datati dell’heavy metal ha talmente tante sfaccettature da dover essere di volta in volta ridefinito, per poter comunicare al lettore cosa si debba aspettare da una band. Sotto l’etichetta “epic metal” ricadono, infatti, band anche molto diverse tra loro: si pensi ai Virgin Steele, agli Warlord, ai Cirith Ungol, ai Manilla Road, ai Brocas Helm, agli Omen e, seppur con dei distinguo, ai Manowar stessi. Se è indubbio che queste band abbiano tratti comuni, è altresì fuori discussione che ognuna di esse presenti marcati tratti distintivi.
Gli Atlantean Codex non fanno eccezione e risultano difficilmente accostabili a un mainstrem stilistico. E questo è un pregio, in quanto denota un buon grado di personalità della band, che propone un sapiente incontro tra più influenze, capace di scaturire in una proposta realmente distintiva. Marche tipicamente doom si alternano a riff definibili semplicemente heavy metal, mentre cori epici di facile assimilazione nascono da strofe dalle linee melodiche non certo semplici: il tutto suona coerente e molto ben assemblato.
Considerate Sol Invictus, che da sola varrebbe l’acquisto del disco: è grandiosa, lunga (come tutti i pezzi di The White Goddess), ma al contempo veloce e veramente epicissima, con un ritornello che non smettereste mai di riascoltare.
Più doomish è Heresiarch, che ben si alterna a Twelve Stars and an Azure Gown, forse l’apice compositivo degli Atlantean Codex. Il pezzo è un piccolo capolavoro di epic metal, capace di tenere l’attenzione dell’ascoltatore sempre desta, in un continuo alternarsi di atmosfere giostrato da una band in grande splovero.
Enthroned in Clouds and Fire e White Goddess Unveiled regalano, infine, venti minuti di grande metal tra l’evocativo e il belligerante.
The White Goddess è un disco eccellente, che fa riflettere su quanto l’epic metal sia davvero fruibile appieno solo da chi vive e respira l’heavy metal. Non è immediatamente scintillante, non attrae le masse, non vive di soluzioni accattivanti, ma quando si rivela all’adepto fedele sa regalare emozioni profonde, che scavano e restano sotto pelle. Gli Atlantean Codex sono riusciti in questo intento: non è cosa da poco.
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