Recensione: The Zealot Gene
The Zealot Gene, ultimo album degli eterni Jethro Tull, è un album ricco di luci e ombre, più ombre che luci per la verità, che probabilmente necessita di un’analisi approfondita per essere raccontato nella sua vera essenza e nella sua reale fattura. Si potrebbe cadere nello scontato e nel retorico sostenendo che l’anno significativo per la band inglese sia stato il 2003 ed effettivamente The Zealot Gene questo lo conferma. Si potrebbe altresì continuare teorizzando che da molto tempo i Jethro Tull non sfornano qualcosa di davvero “nuovo” e “interessante”, limitandosi per lo più a piccoli spostamenti di assetto, essenzialmente di superficie, che non innescano, effettivamente, aperture in grado di penetrare nel profondo dell’ascoltatore.
In realtà, a una seconda analisi meno superficiale, si evidenzia chiaramente che i veri cambiamenti, oltre a quelli continui della line up, non sono ascoltabili se si continua a cercare, anche se sottotraccia, un collegamento, o ancor meglio un paragone, con il passato, scintillante e portentoso, della band inglese. Troppi sono i loro alti e bassi per avere un fermo e inconfutabile elemento di collegamento e/o di paragone.
Siamo dunque all’interno della più classica delle commedie musicali nelle quali prima o poi il tutto converge verso il cantante e questo, in The Zealot Gene, emerge chiaramente sin dalla copertina. In ogni caso non vale la pena soffermarsi troppo sui conti che non tornano, perché di aspetti caratteristici il disco ne ha, basti pensare al gusto essenziale, all’eleganza e alla semplicità che emerge dall’ascolto dei brani. Forse, a voler essere attenti, dovremmo parlare di eccessiva semplicità, dato che talvolta gli arrangiamenti appaiono marginali, scolastici, quasi…istituzionali. Probabilmente su questo pesa molto l’assenza del chitarrista Martin Barre. A un certo punto dell’ascolto il disco perde energia a favore di una musica più tranquilla e “d’ambiente” dato che si ha la percezione, e questo non è affatto da leggere come un elemento negativo, di essere catapultati nella tradizione inglese.
Questa emerge, in realtà, in tutto il suo fascino, sin dal primo brano, Mrs Tibbets, ispirato alla mamma del pilota dell’aereo Enola Gay; qui le sonorità sono cupe probabilmente in linea con l’inconsapevolezza del gesto compiuto dal figlio. Questo rappresenta la rampa di lancio per dire che il disco è altamente culturale, come nello stile di Anderson, con riferimenti al tradimento, all’arroganza ecc. attingendo finanche da episodi del Vangelo. A tal proposito si ascolti Mine Is Mountain, forse il punto più alto di tutto il lavoro, dove si allude all’incontro tra Mosè e Dio durante la consegna delle tavole sul monte Sinai. Entrando nello specifico dei brani Mrs. Tibbets dà il via in modo rilassato e fresco; un intermezzo strumentale sincopato si distacca notevolmente dal resto del brano. Il solo di chitarra di Florian Opahle è una piccola prova di classe (e soprattutto di carattere).
Intro di armonica per la brevissima (ma piacevolissima) Jacob’s Tales, canzone dai tratti folcloristici tipicamente “Ian”, che in questo album risulta essere un tuttofare di prim’ordine, come è stato già accennato in apertura. Mine Is the Mountain è quanto mai evocativa, anche per il tema trattato, soprattutto nell’intro di voce e pianoforte. La voce risulta commovente in quanto a padronanza del tempo e del pathos. I più giovani riscontreranno echi di The Raven That Refused To Sing (And Other Stories), del mai troppo osannato Steven Wilson, ma è puramente una questione di linguaggio in ordine cronologico.
Ritorno all’Heavy per la title track The Zealot Gene, almeno per l’introduzione; ciò fa quasi sperare, anche se invano, in una sterzata decisamente più carica, ma tutto sommato il brano risulterà cupo al punto giusto, soprattutto nella strofa. Shoshana Sleeping ha un’apertura grottesca con un riff che si stampa subito nella mente. Non brilla certo per ispirazione o ingegno, ma risulta efficace se la si guarda (o la si ascolta) per quella che è: un’opera di puro intrattenimento, arricchita da dinamiche molto teatrali. Chitarre acustiche di un certo livello si prestano a duettare con la fisarmonica di John O’Hara in Sad City Sisters, brano in pieno stile Anderson. Seduta e composta questa composizione si basa su sequenze di accordi molto semplici (in Sol Maggiore), ma che risultano di grande effetto comunicativo e che dimostrano una padronanza nella scrittura forma-canzone di un livello incredibile. Anche se non vi sono momenti altissimi (in termini di dinamica) e scorre velocemente nei suoi 3:40 minuti di durata.
Barren Beth, Wild Desert John musicalmente è forse la più trascurabile, risulta frammentata nelle sue molte componenti non del tutto ispirate e collegate fra loro. The Betrayal Of Joshua Kynde è invece una tra le song più travolgenti. Sia chiaro, si viaggia sempre su stilemi molto rodati (come già detto), ma i lavori alle sei corde di Florian Opahle sono il valore aggiunto in fase di arrangiamento. Rendono tutto più fluido, soprattutto se si fa riferimento ai registri vocali di Ian Anderson (ormai praticamente stabilizzati da anni). Il movimento creato all’interno del brano denota la creatività di tutto l’organico (musicisti come sempre di livello altissimo) e non solo del trovatore col flauto (tutti i testi e le musiche sono scritte a due mani).
Where Did Saturday Go? Scorre piacevolmente attraverso le calde polifonie vocali dello stesso Anderson; il brano è uno dei punti più “old style” dell’intero platter e questo non può che essere un bene. Three Loves, Three è canonica e a tratti ripetitiva, ma al tempo stesso una sorta di regalo ai fan di vecchia data. Vi sono stilemi e cadenze tipiche e presenti in tutta la discografia del folletto di Dunfermline, ma il bello arriva con In Brief Visitation. Molto cariche d’intensità le linee melodiche del flauto che si intersecano alla perfezione con quelle chitarristiche (nel mix il flauto purtroppo sovrasta la sei corde mancando un po’ di naturalezza, quest’ultima quasi fuori campo). Da segnalare dunque il lavoro dietro al banco di Nick Watson e della sua equipe al Fluid Mastering (all’attivo una lista infinita di collaborazioni tra cui anche Seal) e quello del mitico Jakko Jakszyk al mixing.
The Fisherman of Ephesus chiude in maniera eccellente il disco e questo non è affatto usuale o di poco conto; qui la tradizione religiosa, che trova prodromi in altre creazioni musicali, ottiene un amalgama perfetto con la musica e tutto questo non si può rinnegare nemmeno una volta prima che il gallo canti.
Il punto debole del disco? Senza dubbio i finali delle canzoni!
L’attenzione e la cura per una delle fasi più importanti della suddetta forma-canzone è praticamente inesistente. Tutto finisce drasticamente (ad esclusione di Barren Beth, Wild Desert John), quasi a voler comunicare un’incessante voglia di voler proseguire a favore della traccia successiva enfatizzando al massimo i testi.
Chiaramente The Zealot Gene è un disco che potremmo definire “minimalista”, scarno negli arrangiamenti e basilare nelle strutture (eccezion fatta per quest’ultima song citata) e lontano anni luce da perle quali Benefit o Thick As A Brick. L’album è godibile, ma non nostalgico. Ian Anderson dunque prosegue tranquillo e rilassato nello sfornare lavori molto maturi dal punto di vista della narrazione, ma forse un po’ ripetitivi sul piano strumentale.