Recensione: Theories Of Emptiness

Di Vittorio Cafiero - 7 Giugno 2024 - 13:41
Theories Of Emptiness
Band: Evergrey
Etichetta: Napalm Records
Genere: Progressive 
Anno: 2024
Nazione:
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90

Quattordicesimo album per gli Evergrey, il quattordicesimo di una carriera mai veramente esplosa a livello di vendite o popolarità, ma che si è sempre contraddistinta per una qualità costante se non crescente. Di fatto, guardando alla discografia della band di Göteborg, risulta complicato trovare uscite poco convincenti, al contrario, decisamente tanti sono i lavori di molto al di sopra della media. Specialmente con gli ultimi album gli Evergrey hanno inanellato una serie di dischi che vanno dal valido all’entusiasmante, per questo motivo è forte la curiosità con cui ci si avvicina a “Theories Of Emptiness”. L’impatto con il nuovo lavoro è subito intenso, anche per chi conosce bene la loro musica. La sensazione è che la band sia riuscita ad alzare ancora la barra qualitativa e ad evolversi pur restando fedele al suo marchio di fabbrica; risulta cruciale in questo senso la scelta di intraprendere la strada del cambiamento: viene abbandonata la zona di confort rappresentata dal mix di Jacob Hansen in favore di quello di Adam “Nolly” Getgood (ex Periphery) e diventa protagonista del processo di scrittura per la prima volta il bassista Johan Niemann – fino ad oggi una sorta di eminenza grigia e silenziosa nel gruppo – che scrive la musica per quasi tutti i pezzi.

Benché “Falling From The Sun” (pezzo di apertura e primo singolo) sia “solo” la semplice conferma della capacità degli Evergrey di strutturare pezzi di facile presa e fruizione, si percepisce una incrementata coralità nella forma canzone, come se le composizioni dei nostri fossero diventate ancora più coinvolgenti, più totalizzanti, se possibile. E, da subito, c’è l’occasione di toccare con mano l’”effetto Niemann”: il basso è enorme all’interno delle composizioni, quasi difficile non focalizzarsi solo su di esso con gli altri strumenti e voce a fargli da cornice. Troppo? No, è decisamente una scelta stilistica che farà esaltare i bassisti ma che permette agli altri di godere di una nuova prospettiva dell’Evergrey sound. La cadenzata “Misfortune” è una traccia che potrebbe fare furore dal vivo grazie al suo refrain da pugno al cielo, mentre “To Become Someone Else” rappresenta l’archetipo del pezzo tipico della band di Tom Englund: inizio intimista, quasi dismesso che esplode e si trasfoma improvvisamente in uno tsunami sonoro, profondamente metal. Giusto ribadirlo di nuovo, la produzione perfetta non fa che esaltare il lavoro dei musicisti questa volta. Con “Say” – pezzo scelto come secondo singolo e nel cui video si dà un commiato da gentiluomini al batterista Jonas Ekdhal che ha deciso di abbandonare le esibizioni dal vivo per concentrarsi solo su composizione e produzione – gli Evergrey tirano fuori un altro pezzo da novanta: questa volta vale la pena, tra gli altri, di sottolineare la presenza discreta ma imprescindibile delle tastiere di Rikard Zander che fanno da tappeto ad un pezzo più classicamente prog, dotato di un ritornello memorabile, così come una parte centrale (quella dopo l’assolo, per la precisone) ai limiti del djent. Potenza e dinamicità, in contrasto con la successiva “Ghost Of My Hero”, ballad più standard, ma solo nella struttura, perché, signori, quanta classe concentrata in sei minuti scarsi…In questo caso, oltre nuovamente alle tastiere, è il timbro riconoscibile di Tom Englund che viene fuori in tutta la sua emozionalità, elemento distintivo della band che perfettamente contribuisce a creare quell’aura malinconica e disillusa che la contraddistingue. Più cattiva e pesante “We Are The North” e questa volta giusto sottolineare la fase solistica, dove Henrik Danhage dà il meglio di sé, pur confermandosi un chitarrista decisamente sobrio che mai esagera con un’esecuzione fine a sé stessa. Vale la pena menzionare anche la successiva “One Heart”, realizzata utilizzando i cori inviati dai fan di tutto il mondo: occasione per tirare fuori un altro pezzo anthemico, dal titolo evocativo e dal testo fortemente identitario. Si tratta di un brano energizzante e positivo, abbastanza lontano dai canoni lirici intimisti e compassati dove Tom Englund si esalta. Esempio in questo senso, “Cold Dreams”, terzo singolo, che vede la partecipazione alle backing vocals di sua figlia Salina, ma soprattutto di Jonas Renske dei Katatonia. Si cambia registro, le atmosfere si fanno rarefatte, non siamo lontani dai territori sonori della band di Stoccolma di cui Renske è leader. Quest’ultimo si cimenta sia nel cantato pulito che in growl in una traccia lunga, da assaporare lentamente, con svariati cambi di umore, anche repentini. Altro centro pieno, che conferma quanto “gli Evergrey sono sempre uguali a loro stessi” sia una credenza senza fondamento.

Theories Of Emptiness” è un album progressivo nella concezione, si percepisce fortemente l’elemento di crescita, di ricerca, di arrangiamento evoluto e curato. Sostanzialmente ogni passaggio sembra pensato e realizzato fino al minimo dettaglio, pur restando umano e scevro da meccanicismi in cui a volte le band tecnicamente dotate cadono. Eppure, la definizione di power-prog spesso loro affibbiata è decisamente limitante: abbiamo a che fare con un metal moderno, specialmente nella produzione, ma con le fondamenta ben piantate nella tradizione, all’avanguardia pur tenendosi lontano da derive alternative.

Forse l’album in uscita oggi rappresenta il culmine dell’Evergrey-style e, almeno da un punto di vista formale, la loro migliore uscita in assoluto, dove quasi ogni pezzo può tranquillamente prestarsi al ruolo di singolo e dove veramente si è raggiunto il climax tra scrittura, esecuzione e realizzazione. Ci si chiede cosa possa esserci di ulteriore, ora che gli Svedesi sembrano aver massimizzato e portato alla sublimazione tutte le loro peculiarità. Per ora, godiamoci questo lavoro, ascoltiamolo e riascoltiamolo, soffermandoci su ogni passaggio e onoriamo il merito di una grande band.

Vittorio Cafiero

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