Recensione: Theories of Flight
See the dark road that’s ahead
Lit by memories you knew
Now the ghosts begin to follow
Let it all come back to you
(da “Like Stars Our Eyes Have Seen”)
Dopo averci lasciato con la sontuosa “And Yet It Moves” quasi tre anni fa, tornano i Fates Warning con il loro dodicesimo studio album. Padri del prog. metal con Queensrÿche e Sieges Even, dopo una prima fase heavy, hanno regalato capolavori come Paralells e A Pleasant Shade Of Gray, anticipando sul tempo i connazionali Dream Theater, ma non riscuotendo lo stessa visibilità. Dopo la nascita del side project O.S.I. (che coinvolge Jim Matheos, affiancato a Kevin Moore) e il lungo iato seguito a FWX, il come back del combo statunitense con Darkness in a Different Light aveva fatto gioire i fan di tutto il mondo. Theories of flight presenta un mixaggio migliore (soprattutto della batteria) e ripropone i Fates Warning 3.0 in buon stato di salute.
Il comunicato stampa parla di un “mix of melodic finesse, high-level performance and brooding melancholy” (fusione di delicatezza melodica, esecuzione di alto livello e melanconia rimuginante). Jim Matheos, intervistato, afferma di aver iniziato a comporre nel gennaio 2015 secondo il suo solito modus operandi, per niente rigido: nessun patema circa date di consegna del paltter, tutto è nato in modo spontaneo. Tra i temi del disco (i testi sono opera di Alder e Matheos) troviamo il valore delle scelte imminenti, scelte ponderate che cambieranno la direzione di vita di chi le compie, la caducità (un classico della loro discografia), la separazione dal mondo e la ricerca di un fondamento ultimo. I temi sono anche riproposti, in modo peregrino, nella (terribile) copertina opera dell’artista del Michigan Graceann Warn. Proprio l’artwork ha influenzato, in realtà, la scelta del titolo del full-length, che inizialmente doveva chiamarsi The Ghosts of Home, mentre la traccia che ne ha preso il nome era semplicemente intitolata “Home Again”. Matheos è rimasto colpito dall’opera di Warn e ha deciso che il disco si sarebbe chiamato come l’immagine dal pennuto “trifase”.
Questi alcuni dettagli, il vero discriminante è la musica. L’opener inizia vellutato, Jarzombek (ormai da quasi dieci anni nelle fila degli statunitensi) propone fill variegati, le chitarre ancora non graffiano. Ci vogliono un paio di minuti perché la 6-corde riproponga il sound abrasivo e saturo targato Jim Matheos. Non manca la cattiveria metal, il refrain è melodico ma non eccezionale. Va meglio lo stacco scenografico al min. 3:28, con controtempi gustosi di batteria. Il basso di Joey Vera non molla un colpo, Alder non sfigura sui registri alti. L’assolo nell’ultima parte del brano (targato Frank Aresti) sfocia in un riff velocissimo che farà la gioia dei fan, poi tutto si conclude con la quadratezza chirurgica presente nel resto della song. “Seven Stars” è un altro pezzo dal minutaggio breve e ritornello che subito s’imprime nella mente; aggiungiamoci un main theme vellicante, qualche armonico e palm mute, il gioco è fatto.
Ruvidezze inflazionate all’avvio della seguente “SOS”, il sound richiama alla mente il lato opethiano dei Porcupine Tree (saranno le chitarre PRS?). Lo stacco a metà traccia è magnetico, ricorda vagamente gli O.S.I. In definitiva un buon trampolino di lancio per la prima suite in scaletta. Tre minuti di rêverie sognante, poi “The Light And Shade Of Things” esplode nella grinta di Alder al microfono, che sfodera qualche asprezza vicina al miglior Russel Allen e non si tira indietro nemmeno su alcuni acuti impegnativi. Poco dopo i sei minuti una falsa cadenza lascia spazio a una parentesi floydiana che non sfigurerebbe in un album degli epigoni Threshold. Il resto della suite vive di chiaroscuri, riprese del main theme iniziale, arricchimenti delle linee di chitarra e un finale circolare in pianissimo. Ed è la volta del singolo “White Flag”, tra i migliori brani in tracklist per chi scrive. Una struttura semplice e diretta, ritmiche trascinanti e un assolo stellare di Frank Aresti. Ci voleva un instant classic di questa caratura, perfino meglio di “I Am” nel precedente full-length. I Fates Warning dimostrano, così, di avere ancora frecce al proprio arco e saper regger il confronto con i cugini theateriani.
Senza sosta, “Like Stars Our Eyes Have Seen” è un altro brano heavy-oriented e melodico al contempo. I testi sono riflessivi e invitano a restare aggrappati ai nostri ricordi, anche se dolorosi. Inutile ricordare che Jarzombek è una vera macchina da guerra: le cadenze nei secondi finali sono tecnicamente ineccepibili. Dopo altri echi à la O.S.I., è la volta del gran finale con una seconda suite, la più lunga, intitolata infine “The Ghosts Of Home”, un vero gioiello compositivo, dalla struttura a incastro. Alcuni dicono che il power metal ha il pregio di fermare il tempo, il prog. di farlo passare come per magia. I fantasmi di casa rientrano in questa seconda categoria. Anche se il leitmotiv cardine del brano non è originalissimo, l’alternarsi di atmosfere eterogenee e la carica ottimistica, proposta incredibilmente dai Fates Warning in questa traccia, stupisce e conforta. Certi abbellimenti nel quarto minuto strizzano l’occhio ai DT (ma non c’è niente di scandaloso in questo), gli umori della chitarra di Matheos dipingono emozioni in continua metamorfosi. C’è, infatti, una componente autobiografica nella suite. Si parla dei diversi cambi di residenza, cui fu costretto Jim quando era piccolo (ben otto in nove anni) e di come questa instabiità abbia influenzato il suo carattere di bambino. Il mastermind ha realizzato solo di recente l’importanza di questo aspetto della sua vita e ha voluto soffermarsi anche “proustianamente” su come ritornare da adulto in quei luoghi abbia avuto un valore epifanico. E, quindi, ecco spiegato anche il titolo dell’album: sradicamenti, fughe, voli, sono questi i tracciati emotivi alla basi di The Theories fof flight. La titletrack in calce è un pezzo latamente sperimentale, con alcuni sample e un’atmosfera onirica, si poteva fare meglio. Da non perdere, invece, il breve ma intenso bonus disk acustico con le versioni di “Firefly”, “Seven Stars” e tre cover, fra le quali una del grande Joaquin Rodrigo (e Alder alle prese con testi in spagnolo).
I Fates Warning non deludono, pur riproponendo il loro sound ben noto: niente tastiere, nessuna concessione al djent imperante, tanta attitudine metal e ampi margini alla melodia e al prog. Chi è un loro sostenitore amerà il platter, chi non sopporta la band del Connecticut resterà del proprio avviso. Un ascolto, però, l’album lo merita a prescindere. La coerenza di questa grande band va ancora una volta premiata.