Recensione: Thieves of the Night

Di Stefano Usardi - 7 Maggio 2016 - 11:02
Thieves of the Night
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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65

Torna in scena la fortezza umana, che con questo Thieves of the Night appone il quinto sigillo (se si esclude il demo del ’99) alla sua discografia fatta di classico power metal, sporcato ogni tanto da spruzzate più rockeggianti. Il gruppo di Hannover, che durante la sua storia quasi ventennale ha visto parecchi avvicendamenti nella formazione, conta ora tra le sue fila Gus Monsanto alla voce, Torsten Wolf e Volker Trost alle chitarre, Andre Hort al basso, Apostolos Zaios alla batteria e Dirk Liehm alle tastiere.
L’album parte con un malinconico arpeggio che per un attimo mi aveva fatto temere che i sei tedeschi avessero scelto come traccia d’apertura una ballata. Per fortuna, in pochi secondi le chitarre e i tastieroni di “Amberstow” fugano le mie paure, consegnando ai miei padiglioni auricolari un bel biglietto da visita: batteria andante, tastiere molto melodiche e un buon rallentamento nella seconda metà del brano che prelude un finale tutto cori come la tradizione pretende.
Last Prayer to the Lord” viene introdotta da un riff molto hard-rock che si incattivisce nella strofa, complice anche il cantato più arcigno di Gus, ma la melodia torna a farsi largo prepotente nel bridge e nel chorus. Quest’interessante alternanza di approcci sparisce purtroppo nella seconda metà del brano, che dopo un buon assolo ancora molto rockeggiante vede la componente melodia unica padrona della scena per il climax finale. “Rise or Fall” è la classica canzone che ci sta sempre, una cavalcata dotata di un ritornello facile facile da cantare tutti in coro che però, pur mantenendosi su un buon livello per tutta la sua durata, alla fine non dice poi tutto questo granché; per fortuna con la traccia successiva il gruppo riaggiusta il tiro, e senza neanche scomporsi. La title-track è, infatti, il piccolo gioiello dell’album: ritmo giusto, melodie azzeccatissime, voce di Gus sugli scudi, batteria robusta quando serve e rallentamento nella seconda metà del brano che prelude al finale più tirato, tutto qui è piazzato al posto giusto e ottimamente dosato. Ben fatto.
Thrice Blessed” parte con un bel riff molto scandito e tempi quadrati che poi esplodono nel ritornello. Il brano si mantiene su tempi lenti e marziali per tutta la sua durata, spiccando il volo nel bell’intermezzo strumentale in prossimità dell’assolo, in cui fanno capolino qua e là schegge di melodie quasi mediorientali.
Hellrider”, devo ammetterlo, mi ha spiazzato: il brano parte quasi come una canzone pop, con ritmi blandi e melodie impalpabili che si irrobustiscono solo leggermente nel ritornello, ma alla fine la canzone è tutta qui: un intermezzo francamente trascurabile che nulla aggiunge a quanto sentito finora, nonché primo passo falso dell’album. Più o meno lo stesso si può dire della successiva “Just a Graze” in cui però, rispetto alla precedente, il gruppo ha il merito di crederci di più, mettendoci più brio e puntando su una melodia più accattivante, seppur un po’ banale.
Con “Vicious Circle” gli Human Fortress cercano di tornare in carreggiata dopo la doppia sbandata con una canzone che presenta melodie convincenti e un piglio più sicuro. Il brano, di per sé non velocissimo, rallenta ulteriormente in prossimità dell’assolo (come d’altronde quasi ogni traccia di questo album) ma stavolta il ritmo si mantiene così fino al termine della canzone, senza la classica alzata di tono finale che più volte si è sentita nel corso dell’album. “Smite on the Anvil” è un intermezzo strumentale che sembra uscito dalla colonna sonora di Terminator, e che per questo amo alla follia nonostante sia praticamente inutile nell’economia dell’album, mentre con “Dungeons of Doom” si torna ai ritmi blandi e alle melodie leggere e un po’ malinconiche di “Just a Graze”, nobilitate da un leggero irrobustimento durante l’intermezzo strumentale e nel finale, in cui si riprende il martellamento di “Smite on the Anvil”.
Gift of Prophecy” parte con un arpeggio acustico molto rilassato, salvo poi svilupparsi in un  mid tempo trionfale in cui Gus gioca su toni più bassi per dare una maggiore enfasi interpretativa al brano, che anche qui strizza l’occhio a certe sonorità hard rock. L’obiettivo è centrato solo in parte: se da un lato la canzone in sé è molto bella, ben strutturata e benedetta da una sezione ritmica che non sbaglia un colpo e da chitarre che intrecciano melodie semplici ma d’effetto, va sottolineato che proprio la voce di Gus, che più di una volta nell’album aveva tirato avanti la baracca, qui non è all’altezza del resto del gruppo, risultando l’anello debole di una canzone che, comunque, risulta la più convincente della seconda metà dell’album.
Alone”, classica ballatona ad effetto da cantare spalla a spalla ai concerti, chiude un album tutto sommato discreto, con delle buone idee, un paio di picchi e qualche ombra che, dopo una prima metà molto convincente tende a perdersi nella parte centrale e si risolleva in extremis nel finale. “Thieves of the Night” alla fine si lascia ascoltare e potrebbe anche strappare consensi al di fuori dei die-hard fans del power metal, magari a quell’amico che volete introdurre pian piano al Sacro Verbo, grazie a brani accattivanti e una proposta, tutto sommato, non troppo aggressiva.
Niente di troppo impegnativo, quindi, ma una chance se la merita tutta.

 

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