Recensione: Thin Lizzy
Può un sudamericano nascere senza la musica e il brio che gli scorre nelle vene? No, non può. Non dobbiamo quindi stupirci se questo brio e questa allegria scorsero anche nel sangue di un mulatto di madre irlandese e di padre brasiliano, tale Philip Lynott che nella seconda metà degli anni sessanta formò prima, col suo amico e compagno di scuola Brian Downey, i Black Eagles, e poi, assieme al neo arrivato chitarrista Eric Bell, una band destinata a lasciare un segno indelebile negli anni ’70, i “Thin Lizzy”. Il primo disco della neonata band esce nel 1971 e si intitola proprio col nome dell’allora trio, trio che si manterrà tale per altri 2 album per poi ampliarsi e cambiare sia qualche elemento che il modo di fare musica. Il sound proposto da Thin Lizzy infatti è alquanto diverso da quello dei capisaldi che la band avrebbe sfornato da qualche anno dopo, questo forse a causa dell’inesperienza del combo, dei pochi membri o vai a sapere cosa. Abbiamo quindi alternanze di canzoni che dimostrano comunque classe e talento (specie quelle più semplici da eseguire, come i lenti) ad altre che nelle loro fasi più concitate risultano molto, molto confuse. Vediamo ora meglio il tutto. L’album inizia con la lenta e inconvenzionale “The Friendly Ranger at Clontarf Castle”. Questa song di fatto fa da intro alla successiva “Honestly is no excuse”, ma è talmente particolare che vale la pena di descriverla. l’intro dell’intro (?!) è stranissima, non per questo meno affascinante, con Lynott che racconta del ranger menzionato nel titolo, accompagnato da qualche effetto sonoro e da un costante e tribale rullo di tamburi. Anche la canzone in sé è alquanto particolare, lenta e molto bluesy. Eccellente il basso, che crea la melodia principale, sempre accompagnato dalle drums. La chitarra usata per qualche sprazzo sullo sfondo, ma in maniera discretamente efficace. Questi quasi 3 minuti sono come detto un sipario per la successiva “Honestly is no excuse”, aperta da una chitarra acustica che fa molto cantastorie. Phil è molto espressivo ma in generale tutto questo mid tempo è placido, calmo, emozionante. Tutti gli strumenti si premurano di creare una gran melodia, molto orecchiabile e che trasuda romanticismo e odore di altri tempi. Gran bello l’attacco, sempre di chitarra classica, della successiva Diddy Levine, lento basato all’inizio sul pizzicare della 6 corde. Anche qui il sapore della song è in pricipio molto melodrammatico, prima di un aprirsi a maggiori (ma comunque contenute) sonorità, forzate dall’andare del basso e della chitarra elettrica, che prendono il largo nel tratto centrale del brano. Forse un po’ troppo lunga come canzone, ma ben lontana dalla stroncatura, in quanto troppo ben fatta. Più “futuristica” delle precedenti la quarta “Ray Gun”, trascinata da da giochi di Bell sulla sua chitarra e dal solito, ineffabile, basso di Lynott. Purtroppo Ray Gun rimane, nel complesso e nonostante le buone prove singole, una delle peggiori track del platter, troppo discosta dalle precedenti che comunque avevano dato una prima idendità al prodotto (sembra tornare al rock della seconda metà degli anni 60, non del migliore dei sixtees comunque), peccato. Similare anche il discorso per “Look what the wind blew in”, con alcune differenze in positivo per quest’ultima. Intanto il vocalist si esprime molto meglio che in Ray Gun, poi abbiamo un assolo davvero pirotecnico ed infine, nonostante l’opinabile bruttezza delle strofe, ci si rifà con un refrain allegro e azzeccato, che risolleva la media qualitativa della traccia. Ed eccoci ad una tipologia di pezzo che il gruppo avrebbe riproposto spesso da qui in futuro. Parlo degli omaggi alla madrepatria Irlanda. Il pezzo capostipite di questa saga di tributo alla terra delle colline sempreverdi è “Eire”, un lento molto corto ma anche molto gradevole, dotato di una buona trama, un gran bel testo (leggere sempre i testi dei Lizzy, tra i migliori per quanto riguarda questo punto), e anche di una buon suonato, che fa da piacevole intermezzo e stacco. Si ritorna ad una musica più agitata e potente con “Return of the Farmer son”, che però non mi piglia molto. I riff sono anche carini se presi singolarmente, ma il mix mi risulta alquanto stonato, vabbè. Va abbastanza meglio la penultima “Clifton Grange Hotel”, mid tempo che mantiene una buona linearità, pur sapendo ancora molto di anni sessanta, ovvero uno stile non dei più organizzati. Non che qui sia tutto “fuffa”, anzi qualche tratto piacevole e coinvolgente ci sta, ma altri passaggi sono ancora da rivedere. E all’ennesimo lentone è dedicata la chiusura di questo nel complesso più che sufficente esordio (a dire il vero nella versione rimasterizzata sono presenti ben 5 bonus track, tra cui la famosa e bellissima “Dublin”). Sto parlando di “Saga of the Ageing Orphan”, che forse è il brano più bello di tutto il lotto, triste, malinconico, ma dolcissimo. Da non perdere, come in fondo è da conoscere questo Thin Lizzy. Certo la musica che Lynott e compagni avrebbero prodotto da qui a poco sarebbe stata nettamente “restaurata”, ma i suoi pregi li ha anche questo lavoro.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) The Friendly Ranger at Clontarf Castle
2) Honestly is no Excuse
3) Diddy Levine
4) Ray Gun
5) Look what the wind blew in
6) Eire
7) Return of the Farmer’s Son
8) Clifton Grange Hotel
9) Saga of the Ageing Orphan
Nel remaster vi sono anche :
10) Remembering part 1
11) Dublin
12) Remembering part 2 (new day)
13) Old moon madness
14) Things ain’t workin