Recensione: Things we leave behind
Imbattutomi per caso in “Nocturne” ho deciso di approfondire la conoscenza dei Soliloquium al volo. Il pezzo, in effetti, una favolosa melodia malinconica in stile “alternative prog”, gusto, raffinatezza e soprattutto, un ottimo grip. In sostanza, un autentico singolo perfetto. Certo va detto che però “Nocturne” non offre un quadro complessivo esaustivo di questo do svedese, arrivato con in questo 2020 alla sua terza release.
“Things we leave behind”, questo il titolo dell’album, ci offre in effetti una band piuttosto matura ma soprattutto piuttosto variegata nelle influenze. Se infatti abbondano i momenti malinconici di cui sopra, è anche vero che spesso e volentieri i Soliloquium si producono in violente sfuriate di death melodico. Sicché il risultato finale è un album compatto in cui non mancano però i cambi di ritmo, di velocità e di atmosfera. Lo mostra “Dead Ends”, brano apripista (ed effettivo singolo estratto) che parte subito con dei gran riffoni per poi rallentare in atmosfere più malinconiche e svilupparsi in numerosi su e giù per quasi sei minuti.
Sulla base di queste premesse vengono fuori diversi pezzi molto buoni, va però notato che tra questi figurano quasi sempre quelli in cui il gruppo tende a prediligere la propria anima malinconica. È impossibile non notare canzoni come, ad esempio, “Reminiscence”, “A fleeting moment” (una delle due canzoni completamente priva di growl), e la conclusiva “The Recluse”. Tra i brani tirati, al contrario, si segnala “Existential Misshape”.
C’è ora da dire però anche che la proposta targata Soliloquium è estremamente derivativa. Ogni nota di “Things we leave behind” richiama a qualcun altro, l’effetto abbastanza originale dei vari stili qui mischiati, con indubbio mestiere, è sempre viziato da un diffuso senso di già sentito.
I nomi sono facili da individuare. I riff di death melodico e i growl urlano “Insomnium” spesso e volentieri. Per noi italiani non è poi difficile accostare le clean vocals di Stefan Nordström a quelle di Marco Soellner, così come pure certi riff di chitarra richiamano vagamente i Klimt 1918. Tutto il resto infine, e questa è l’influenza più onnipresente, la band di Stoccolma lo recupera dai concittadini Katatonia (magari li beccheremo in tour assieme, quando si potrà ricominciare a girare l’Europa). Perfino la copertina di “Things we leave behind” richiama in maniera abbastanza spontanea quella di “Viva emptiness”. Differenze principali: manca la bambina e il filtro, anziché sul grigio, è impostato su un bel giallo cadmio acceso.
Una proposta così derivativa, in sostanza, può essere sopperita solo da un songwriting di livello più che superiore – cosa che gli svedesi dimostrano di avere soprattutto nel brano citato in apertura di recensione. Per il resto, “Things we leave behind”, è un album più che dignitoso, che regala buoni momenti, magari ai nostalgici dei primi Klimt 1918. È anche un album che mette in evidenza una band con buona tecnica e ottimo gusto e che però non riesce ad essere originale e innovativa come vorrebbe.