Recensione: Third
Quando si parla di Viking Metal spesso si citano sempre le solite band, che bene o male hanno costruito il genere e ne hanno incanalato il sound principale. E giustamente si parla solo di band scandinave. Ultimamente, invece, diverse band europee hanno iniziato a ispirarsi palesemente ai sound scandinavi e alle tematiche vichinghe per creare una specie di ibrido viking metal, con alterne fortune (therion, hin onde, moonsorrow, doomsword eccetera) e soprattutto con grande disparità di giudizi.
Da questo calderone di musicisti pagani inneggianti al pantheon nordico si è distinta da qualche anno a questa parte una band francese di nome Himinbjorg. Attivo dalla fine degli anni novanta, il quartetto dalla normandia ha prodotto ben cinque CD, ognuno con un sound definito, interessante e degno quantomeno di essere annoverato nelle file del Viking metal straniero.
Third è il terzo album, un mini-CD della durata di 25 minuti, e segue di pochi mesi l’uscita del secondo full-length, “In the Raven’s Shadow”. A mio giudizio, tra i tre album d’esordio questo è il meno “Viking” in assoluto, e se non avessi letto le interviste al gruppo probabilmente nemmeno mi sarei accorto del loro orientmento paganoide, molto chiaro in “Himinbjorg” e in “In the Raven’s Shadow“, e molto più blando in questa terza release. Già la copertina e il libretto lasciano il sospetto che la band si sia rivolta verso sound un po’ più elaborati rispetto alla barbarie dei loro precedenti lavori, e tale sospetto non può che essere fugato già dalla prima canzone, “The Fading Whispers“, una lunga e lenta cavalcata dai suoni eterei, con chitarre che ripetono riff semplici, cadenzati, allungati con tastiere atmosferiche, con una voce in growl molto controllato, che non fa altro che definire ancora di più la cadenza a volte troppo ritmata di tutti gli strumenti. Non vi troverete di certo di fronte al solito miscuglio black/folk di vecchia scuola Viking: in Third le velleità alla enslaved, alla einherjer, alla ulver spariscono per lasciare il posto ad atmosfere pagane molto sognanti, quasi celtiche, sollevate non da cori femminili o da strumenti classici, ma da chitarre delicate, ora elettriche ora classiche, e da lunghi riverberi che si dissolvono nel silenzio. La coppia “The Great Tune With the Grass (part 1)” e “The Great Tune With the Grass (part 2)“è probabilmente la gemma dell’album: la prima parte è semplicemente un’intro strumentale atmosferica, mentre la seconda è un buon pezzo black di una certa velocità, in un buon screaming, con dei riff discretamente catchy e una buona evoluzione melodica, che lascia decisamente soddisfatti prima dell’intercessione di “Under the Spell of the Grass” e “The Moment“, seconda coppia di canzoni senza particolari pregi, di buon black semplice senza alcun tipo di tecnicismo, che scivola quasi indolore fino a “An ode to the Older“, l’ultima canzone breve in voce pulita, lenta, sognante, con chitarre ridotte a moncherini zoppicanti e tastiere che predominano, con il compito unico di creare un tappeto di note vibranti e continue su cui la voce può sostenersi e arrivare al cielo.
Third è un album difficile da giudicare. Gli Himinbjorg non hanno mai riscosso molto successo nonostante la loro pluriennale carriera e il loro buon numero di produzioni sotto la Red Stream. Il perché non è particolarmente oscuro: sicuramente sono dei buoni artigiani, fanno musica con un certo stile, hanno una verve abbastanza originale rispetto al black/pseudo viking di scuola scandinava (probabilmente perché NON sono scandinavi) e tutto sommato producono dei CD che non meritano di essere gettati completamente nel dimenticatoio. Tuttavia questo Third manca di scintille, manca di verve. È un album a tratti ambient, a tratti black, un black però gorgogliato, un black che ancora non si possono permettere, probabilmente perché non è quella la loro strada. Con Third hanno tentato di creare un sound proprio, infastiditi probabilmente dal fatto che i loro primi due lavori furono continuamente paragonati alle più disparate band scandinave. La modernizzazione dello stile, anche grafico, delle loro release è un simbolo palese della propria voglia di innovare e rendersi unici (con il risultato di creare un libretto e il retro del CD praticamente illeggibili); tuttavia questo tentativo è stato evidentemente un po’ troppo prematuro, e li ha trascinati in un sound incerto, debole, un po’ incespicante.
Ciò non significa che non possono piacere a tutti: essendo un CD tutto sommato ben suonato, dalle atmosfere particolari, cadenzate, tranquille, può essere apprezzabile in determinate situazioni di umore, ascoltandolo di notte magari, nel silenzio, o in fase di meditazione. Non è un album da headbanging, è più un album evocativo/riflessivo, anche se breve. Non è esattamente ciò che si chiede al Viking Metal, anche se l’invitantissimo prezzo di cinque dollari può costituire un pregio non indifferente, ma del resto ognuno ha il diritto di sfruttare i propri mezzi come vuole. Il problema, però, è che la maggior parte degli ascoltatori troverà questo disco interessante ma incompleto, sonnolento, monocorde. In una parola, noioso.
Tracklist:
1- The Fading Whispers
2 – The Great Tune With the Grass (Part 1)
3 – The Great Tune With the Grass (Part 2)
4 – Under the Spell of the Grass
5 – The Moment
6 – An Ode to the Older