Recensione: Thirteen
Nel 2013 gli Harem Scarem, uno dei gruppi più rilevanti dell’intera scena AOR e melodic-rock, sono tornati ad esprimersi sul mercato discografico con un’operazione, a modesto avviso del vostro recensore, del tutto ininfluente sulla proposta artistica complessiva della band. Si trattava, infatti, di Mood Swings II, una nuova registrazione del quasi omonimo masterpiece, la quale celebrava l’anno scorso i vent’anni dalla sua uscita.
Per fortuna, gli Harem Scarem non hanno inteso avviare, con tale lavoro, lo sterile loop “album ri-registrato- album live – album di cover – album unplugged” spesso inanellato da molte formazioni di classic-rock che non osano mettere al mondo nuove canzoni. La band di Harry Hess e Pete Lesperance, infatti, probabilmente elettrizzata dalla conseguente rinnovata attenzione degli appassionati nei loro confronti, anche nelle occasioni live, si è sentita presto pronta a creare un nuovo pugno di brani inedite. Ed ecco, dunque, che questi vedono oggi la luce sotto forma del loro tredicesimo platter dal titolo, manco a dirlo, “Thirteen”.
Le dieci canzoni qui presentate spuntano come segnali del tutto confortanti circa lo stato di salute artistica e creativa della band. La voce di Herry Hess delinea, con la maestria di sempre, melodie che trafiggono immediatamente il cuore di chi ad esse si accosti, così come aveva fatto nei suoi lavori solisti licenziati con a nome First Signal e Hess. La chitarra di Lesperance, d’altro canto, trapassa a sua volta l’ascoltatore con risoluti riff e raffinati e lucenti assoli.
L’aria (bella, limpida e ben ossigenata) che tira in Thirteen si palesa immediatamente grazie all’iniziale Garden of Eden. Ecco qui, serviti come antipasto, quei riff e quella melodia di cui si parlava poco più sopra, sebbene la canzone, pur assai gradevole, non decolli del tutto e – dunque – non costituisca l’incipit perfetto per il full-length. Le antenne del fan più scafato, difatti, si drizzano soprattutto quando arriva il tempo della successiva Live It. Questa song si muove sulla stessa linea stilistica della precedente, ma è più centrata pur offrendo un mood ora sbarazzino ora anthemico.
Early Warning Signs ha un incedere più risoluto ma è comunque illuminata dalla solare musicalità del ritornello, mentre The Midnight Hours (come pure, più tardi, Never Say Never), si addentra in sinuosità tra pop-rock e AOR tra le quali si fa largo l’assolo della sei-corde.
Whatever It Takes, è l’irrinunciabile power-ballad, tanto familiare all’ascolto quanto efficace nella capacità di indurre le attese sensazioni acustiche e sentimentali. La cartella “slow” del CD, però, ha al suo interno un file ancora più sfavillante: parliamo della conclusiva Stardust, elegantissima e coinvolgente, con un’aria che resta a lungo nella testa anche a canzone conclusa da un bel po’.
Di tutt’altra pasta Saints and Sinners, traccia grintosa e caratterizzata da avviluppanti riff circolari di chitarra, mentre All I Need è un soft-rock in cui energia ed armonia si sposano a perfezione senza configgere (cosa che succede anche nell’appena meno avvincente Troubled Times).
Thirteen, in conclusione, pur senza proporre particolari evoluzioni stilistiche per conto degli HS, ed anche se non si spinge fino al livello siderale degli album classici della band, risulta pienamente convincente e non deluderà affatto i fans. Il sound proposto, peraltro, non appare né datato né revivalistico, ed il livello compositivo ed esecutivo delle canzoni è uniformemente alto, con più di qualche guizzo d’eccellenza. Ugola ed ascia dominano incontrastati, marchiando a fuoco con stile, classe ed eleganza infiniti queste dieci tracce (più bonus track) di luccicante melodic-rock a denominazione d’origine controllata.
