Recensione: This Place That Contains My Spirit
Il terzetto di musicisti che andiamo ad analizzare proviene dal South Dakota, quadrangolare stato caratterizzato da estremi climatici e da paesaggi aspri e forti. Perché quest’introduzione da sussidiario delle medie? Non è tanto la finalità didattica a interessarmi, quanto la possibilità di fornire un quadro di riferimento per la musica di questa band. Attivi dal 2007, i Woman Is The Earth sono uno di quei gruppi che si adattano meravigliosamente al contesto in cui originano: radicati nelle natie Black Hills, infatti, propongono un metal scabro e sporco, con elementi atmosferici che portano alla memoria, per esempio, i connazionali Wolves in the Throne Room o i primi Negur? Bunget. Anche le tematiche trattate si possono ricollegare al fertile filone del black metal ambientale (e ambientalista), con testi che sottolineano la necessità di ricongiungersi a un mondo naturale con cui si sta perdendo ogni connessione.
La band centellina le informazioni sulla propria biografia e mantiene un profilo decisamente basso: esibizioni dal vivo col contagocce, poche incursioni fuori dallo studio e, in genere, scarse informazioni sui componenti e sul progetto. Evidentemente, i nostri vogliono che sia la musica a parlare per loro. Ma in che modo? Andiamo subito a scoprirlo!
Quella che abbiamo in mano, in realtà, è una ristampa del disco di debutto della band, registrato nel 2012 con mezzi di fortuna, e ora riproposto dopo un restauro volto a garantire una qualità audio più accettabile. In effetti, il ribollio sonoro che fuoriesce dalle casse dello stereo è abbastanza definito. Però, è inevitabile sottolineare che, tra strumentazioni distorte e scream apocalittici, capita che alcuni episodi restino abbastanza confusi.
Le quattro tracce scorrono in maniera fluida, forse anche troppo: il flusso è indefinito ed è difficile distinguere un pezzo dall’altro se non per qualche inserto che vede l’apparizione di strumenti particolari come l’ocarina o per un riff più azzeccato. Non so se sia un processo voluto, per costruire una lunga suite i cui frammenti sono legati da un filo conduttore comune, ma il risultato definitivo non mi ha convinto in maniera particolare.
Sebbene non particolarmente vari, è doveroso evidenziare che, di per sé, i singoli brani non sono affatto brutti o mal suonati: il peccato più grave dei tre ragazzi è l’originalità. Per tre quarti d’ora, ascoltiamo musica che puzza tremendamente di già sentito e che, ben più grave, a volte finisce in sottofondo anche se stiamo dedicando tutta la nostra concentrazione nell’ascoltarla.
“This Place That Contains My Spirit” è un disco strano. Prima di riuscire a farmene un’idea precisa, ho dovuto ascoltarlo più e più volte. Frenando la propensione iniziale a liquidarlo con uno sbadiglio, ho deciso di dedicargli più tempo, prendendomi anche delle pause per digerirlo e assimilarlo. Ne è valsa la pena? In un certo senso, si. Di certo, quello che abbiamo tra le mani non è un disco eccezionale e si perde senza speranza nel calderone dei prodotti simili che infestano il mercato. Però, lascia trasparire degli spiragli interessanti e, in un paio di passaggi, trova il suo senso e solletica la curiosità per il futuro di una band che, se gioca bene le sue carte, potrebbe avere qualcosa da dire nell’affollato panorama black metal.
Per adesso, il disco è consigliato sono ai fan sfegatati del genere; tutti gli altri, possono soprassedere.
Damiano “kewlar” Fiamin
Discutine sul forum