Recensione: Throes of Joy in the Jaws of Defeatism
Il sedicesimo album dei Napalm Death esce in tempi infausti per l’umanità e appare più necessario che mai. Throes of Joy In the Jaws of Defeatism letteralmente significa “Spasmi di gioia nelle fauci del disfattismo”, e l’artwork rappresenta perfettamente questo concetto. La colomba bianca, che è un simbolo universalmente riconosciuto di pace e fratellanza, qui viene brutalmente stritolata; vi è però una cosa che ci rende tutti uguali, ed è il sangue. Si tenta quindi di trovare un intento di universalità e uguaglianza in morte e distruzione, un ossimoro perfetto per la band di Birmingham che, cinque anni dopo Apex Predator – Easy Meat, appare in forma, agguerrita e devastante.
I primi tre brani del disco sono un pugno in faccia in grado di annichilire chiunque, e trovano l’apice in That Curse Of Being in Thrall che, a conti fatti, è anche il brano migliore dell’opera. Sezione ritmica velocissima, un tiro micidiale, riffing urticante e Barney che urla come un forsennato sono ingredienti sempre vincenti, che qui godono di grande ispirazione e una furia distruttiva fuori dal comune.
La seconda triade invece cambia le carte in tavola sperimentando e offrendo qualcosa di diverso rispetto all’assalto totale. Contagion ha dalla sua un ritornello che sembra pubblicizzare uno di quei giocattoli tossici alla Crystal Ball direttamente presi dagli anni ’80; Joie De Ne Pas Vivre appare invece come momento poco riuscito e a tutti gli effetti risulta il brano più debole del disco. Voce filtrata, atmosfera horrorifica e la stessa frase ripetuta ad libitum non riescono a rendere il brano qualcosa di memorabile, anzi, il risultato è l’esatto opposto e la tentazione di premere il tasto skip è forte ad ogni passaggio. Si tratta fortunatamente di un caso isolato, perché Invigorating Clutch, dopo una partenza in sordina, mette le cose a posto rivelandosi un gran bel brano.
Zero Gravitas Chamber e Fluxing On The Muscle tornano a premere sull’acceleratore con grandissimi riff e l’headbanging è assicurato! Il carico da undici arriva pero con Amoral, che è a tutti gli effetti un brano punk rock. Si cambia quindi registro in maniera totale e si passa a un brano orecchiabile e con un gran ritornello; fecero una cosa del genere anche i Sick Of It All con Step Down, ad esempio, e anche lì l’esperimento fu un centro perfetto.
La titletrack è il brano più violento, senza fronzoli e in your face del lotto, mentre la seguente Acting In Gouged Faith fa del groove la sua arma principale ed è impossibile rimanere fermi; ottimo il riff sul blast beat nel ponte centrale. Si chiude con A Bellyful Of Salt And Spleen, che risulta un brano difficilmente inquadrabile come Joie De Ne Pas Vivre ma sviluppato meglio, con atmosfere messianiche riuscitissime e un senso di inquietudine generale, che pian piano va a sfumare assieme alle bordate di basso di Shane Embury.
La versione promozionale in nostro possesso è sprovvista delle tre bonus tracks, Feral Carve-up, White Kross (Sonic Youth) e Blissful Myth (Rudimentary Peni); non siamo quindi stati in grado di ascoltarle.
Throes of Joy In the Jaws of Defeatism è un grandissimo album, che testimonia un stato di forma dei Napalm Death impressionante. Quante band al sedicesimo appuntamento in studio riescono ancora a scrivere opere di livello medio/alto, con 2 o 3 potenziali classici al loro interno? Giù il cappello quindi, e applausi per una realtà che non finisce mai di stupire e soprattutto di offrire ottima musica. E’ valsa la pena attendere cinque lunghi anni per un risultato che va oltre ogni rosea aspettativa e che, con buona pace dei detrattori, finirà probabilmente in ogni classifica dei migliori dischi di questo bislacco 2020. Bentornati.