Recensione: Throne of the Goat (1997-2017)
Ammettiamolo, letto così potrebbe quasi sembrare un best of ed invece ci troviamo di fronte al primissimo EP dei norvegesi Tsjuder, risuonato e nuovamente registrato per celebrare i 20 anni di questo glorioso primo passo nell’oscuro mondo del black metal, un mondo per il quale la band capitanata da Nag, Draugluin e Anti-Christian ha dato alla luce 5 dischi e superato un break che li ha visti lontani dalle scene dal 2007 al 2011. Ma torniamo a questo Throne Of The Goat ed al fatto che vide la luce nel “lontano” 1997, ben tre anni prima del debutto discografico con Kill For Satan . La band tiene a sottolineare però che non ha voluto semplicemente risuonare i quattro brani che composero il famigerato primo EP, ma ha preferito affiancare i pezzi originali alle nuove versioni, dando modo all’ascoltatore di rendersi conto di come il sound e la ferocia non siano stati intaccati dalla nuova e logicamente migliore produzione, che riesce però a donare maggiore prepotenza alle due tracce principali, essendoci intro e outro ad aprire e chiudere questa passeggiata nell’oscurità. Sono trascorsi 20 anni da quando dei giovani musicisti intrapresero questo cammino nel mondo del black metal e mantenere intatta l’eredità di un debutto così caro alla band era importante a tal punto da fare in modo che questi 23 minuti regalassero all’ascoltare un’esperienza differente di quella che si avrebbe ascoltando una nuova registrazione, quasi fine a se stessa. Il logico confronto tra i brani del ’97 e quelli di vent’anni dopo mi porta ad analizzare con voi questo disco in ordine differente rispetto alla scaletta stessa, ascoltando prima la versione originale e passando subito a quella odierna, per meglio capirne le differenze e renderci soprattutto conto se le intenzioni della band siano state esaudite dalla nuova produzione oppure no.
Cominciamo quindi con l’Intro, il primo passo dentro questo velocissimo faccia a faccia con il vostro più spaventoso incubo. Nella versione originale si è letteralmente avvolti da urla provenienti dell’oltretomba e gettati in una bolgia oscura di colpi di tamburo. La controporte moderna non si discosta molto da quello che è il significato o da ciò che vuole rappresentare questa opener, ma lo fa in maniera più solida, con un sound logicamente più affilato, riscontrabile soprattutto nella batteria, non più in secondo piano rispetto alle urla che circondano questo primo minuto di ascolto. Throne Of The Goat è la prima delle due vere e proprie tracce e già nel 1997, gli Tsjuder dimostravano com’erano in grado di suonare del valido black metal, fatto di ritmiche veloci, ma anche di cambi di tempo e un sound molto ispirato. La voce è paurosamente simile ad un latrato ancestrale, quasi come quello di un’anima dannata che viene divorata da dentro, ma nonostante una produzione low-cost riusciva ad amalgamarsi bene. Discorso differente per la versione attuale che seppure non vada a snaturare la canzone stessa, suona più profonda, più cupa e fa in modo che il brano guadagni maggiore pathos ed arrivi con più violenza e decisione nei nostri timpani. La voce resta sempre diabolica, malata e infernale, ma si fonde meglio senza necessariamente svettare sopra al classico ronzio di chitarre, tipico aspetto dei primi lavori black di metà/fine anni 90. Proprio come nel caso della successiva Dying Spirits, che dalla sua vanta numerosi cambi di ritmiche e una costruzione che la rende poco catalogabile a livello temporale: infatti, potrebbe tranquillamente essere un brano ex-novo proprio grazie ad un songwriting già maturo, seppure in pieno stile true norwegian. Suonata e registrata nuovamente a 20 anni di distanza, prende maggiormente le distanze dalla versione originale – perlomeno rispetto a quanto successo con il brano precedente – la migliore produzione permette al brano di guadagnare molto in termini di atmosfera e non solo di potenza e violenza, punti cardine dell’intera canzone. L’EP si chiudeva e si chiude quindi con l’Outro, un agglomerato di suoni e voci a tratti dissonanti, volutamente disorientati e che lasciavano presagire che la tempesta perfetta sarebbe arrivata da lì a poco. Risuonata, anche l’outro stessa guadagna in termini di qualità generale, accantonando le dissonanze e dando il benvenuto ad un’atmosfera resa ancora più cupa dall’esperienza maturata nel corso degli anni e dai nuovi mezzi a disposizione.
Questo EP non rappresenta un must per la vostra discografia black, a meno che la band in questione non sia nella vostra top 5. Detto ciò, devo dire che ho trovato interessante la scelta della band di registrare nuovamente l’EP d’esordio e di mantenere anche le versioni originali, dando modo all’ascoltatore di notare come e dove siano le differenze e soprattutto rendendosi conto che il classico stampo di puro sangue nero non sia stato perso o accantonato in virtù di sonorità che farebbero meno fatica ad appagare il desiderio di violenza sonora. Gli Tsjuder sono una garanzia, proprio perché sanno esattamente quello che vogliono.