Recensione: Thunderbolt
Era, grosso modo, la metà degli anni ’60. I giovani avevano bisogno di novità, di divertirsi ma anche di esprimere i propri talenti, la propria personalità, anche attraverso la contestazione di tutto quello che, con la scusa di chiamarla tradizione, era per loro solo ‘roba vecchia’.
Quale miglior modo per farlo se non attraverso la musica? Ed in particolare, quale miglior musica se non il blues: la ‘musica del diavolo’?
Ed è così che i canti che ebbero origine tra le comunità degli schiavi afroamericani, sfruttati nelle piantagioni del Sudamerica, cominciarono ad evolvere, subendo dei cambiamenti essenziali quando l’uso della chitarra elettrica permise di suonare a volumi più sostenuti.
Il blues più agitato divenne rock’n’roll e, ben presto, i testi si adattarono ai ritmi.
Negli anni ’60 si ebbe la prima vera rivoluzione, con Beatles, Rolling Stones e Who (e molti altri nomi importanti che non si citano solo per mancanza di spazio), che scrissero alcuni brani di rock ‘duro’, quali, ad esempio, ‘Helter Skelter’ dal ‘White Album’ dei Beatles, ‘Paint it Black’ dei Rolling Stones contenuta nell’album ‘Aftermath’ o la versione di ‘Summertimes Blues’ degli Who, ma fu nel 1969 che si ebbe la vera svolta, con la nascita di Thin Lizzy, Band X (che, dal 1976, assunsero il nome di Accept) e Black Sabbath. In particolare, mentre i primi puntarono molto sulle melodie blues, i secondi seppero infondere velocità ai propri suoni ed infine i terzi preferirono matrici oscure e pesanti, con riff taglienti e maligni.
Era nato l’Heavy Metal, ma non se ne era ancora coscienti. Ad esempio al genere dei Black Sabbath si dette l’appellativo di Dark Sound e si dovette attendere il 1971 perché il critico Lester Bangs battezzasse Heavy Metal questo nuovo stile.
Da lì l’invasione: nel 1970 nacquero i Judas Priest, con i loro suoni potenti, nel 1975 i Motorhead, che unirono il divertimento del Rock ’n’ Roll alla sfacciataggine del Punk e nel 1978 i Saxon, che oggi sono associati al movimento della NWOBHM ma che, più che altro, ne furono i precursori.
Nella realtà, di quale movimento abbiano fatto parte i Saxon, poco importa, mentre invece è essenziale quello che hanno fatto e che ancora, dopo quarant’anni di carriera, stanno ancora facendo: una buona fetta della storia dell’Heavy Metal, quello vero ed incondizionato.
La band è sempre stata discretamente compatta, subendo pochi cambi di formazione e nei primi anni dettero alle stampe album giganteschi e di grande influenza, citando, tra tutti, ‘Wheels of Steel’, ‘Strong Arm of the Law’ e ‘Denim and Leather’.
Furono anche ospiti del Festival di San Remo, con ‘Nightmare’ tratta da uno degli album di loro maggiore successo, ‘Power and the Glory’, purtroppo cantata in playback con solo gli ultimi tre colpi di batteria dal vivo.
Poi la prima svolta: l’assalto del mercato americano, con album più ‘morbidi’ tra cui il primo, ‘Rock the Nations’, del 1986, che vide la partecipazione del mitico Elton John, proprio per stabilire un collegamento con la musica pop. All’epoca funzionava così, essendo il pubblico d’oltreoceano avvezzo a sonorità meno rabbiose, ma molto più numeroso, in quanto l’Europa non poteva ancora contare sui grandi numeri della parte dell’Est, come succede oggi. Come per alti gruppi, quali Accept, Judas Priest e Motorhead, il risultato non fu proprio positivo ed i Saxon persero seguito.
Seguito che ripresero con la rinascita del Metal: nel 2007 pubblicarono ‘The Inner Sanctum’ in cui non solo tornarono ai suoni originali, ma li indurirono ulteriormente. I Saxon, quindi, tornarono ad essere più ‘Heavy Metal’ che mai, come dimostrarono nei successivi album fino a ‘Battering Ram’, uscito nel 2015.
Ora è la volta di ‘Thunderbolt’, il nuovo album, disponibile dal 2 febbraio 2018 via Militia Guard label (Silver Lining Music).
Partendo dal presupposto che non si può effettuare un corretto confronto con i capolavori del passato, allo stesso modo di come non si possono comparare ‘Killers’ con ‘The Book of Souls’ degli Iron Maiden o ‘British Steel’ con ‘Redeemer of Souls’ dei Judas Priest, ‘Thundebolt’ è un album meno potente del precedente ‘Battering Ram’, con un maggiore occhio alla melodia ed alle sonorità delle origini, senza comunque destare sensazioni nostalgiche ma piuttosto cercando di dare una certa continuità evolutiva.
E’ inutile parlare di come suonano i Saxon, la cui formazione è rimasta invariata rispetto al precedente lavoro: il mestiere lo conoscono alla perfezione, sanno benissimo come arrangiare un pezzo, quando introdurre i cambi di tempo, quando accelerare, rallentare e creare momenti d’atmosfera, con Biff che va oltre il semplice cantare, raccontando ogni volta una storia che non si riesce a smettere di ascoltare, seguito da una ritmica dirompente od oscura, a seconda di quello che serve, e con gli assoli che non sono mai fini a se stessi, con scambi che sfiorano la perfezione.
Non resta che parlare delle tracce: dieci canzoni più intro della durata complessiva di poco superiore ai quarantadue minuti, con le quali i Saxon dimostrano di sapersela cavare con tutto il panorama dell’Heavy Metal classico.
‘Olympus Rising’ introduce il lavoro in modo epico e potente, facendo percepire l’inizio dello scontro.
La Title Track, ‘Thunderbolt’, è Heavy Metal al 100%: potenza, accelerazioni, rallentamenti e refrain con chorus, un ottimo scambio di assoli ed un finale di Twin Guitar che ha il solo difetto di durare troppo poco.
Poi segue ‘The Secret of Flight’, resa epica con l’aiuto del synth, molto melodica grazie al cantato a due voci a cui segue una contro strofa con cantato singolo ed un refrain di nuovo a due voci. E’ carico d’enfasi l’assolo in chiave Hard Rock che si scambia con un altro più Metal che porta all’accelerazione finale.
Poi i Saxon dimostrano il loro apprezzamento per i Black Sabbath con ‘Nosferatu (The Vampires Waltz)’, un pezzo in cadenza con un organo demoniaco che mette i brividi.
Dopodiché si ascolta il primo pezzo che fa veramente accapponare la pelle, grazie anche ad un video promozionale emozionante: ‘They Played Rock and Roll’ racconta dei primi anni del Metal (quando non si sapeva ancora che si sarebbe chiamato così, come detto sopra), e soprattutto dei Motorhead, per i quali è stato scritto. Confesso: due lacrimucce possono scendere quando si sente, per pochi secondi, la voce di Lemmy. A parere del sottoscritto è il pezzo migliore dell’album.
‘Predator’ è più moderna, dando il giusto adeguamento dell’album ai tempi attuali. Partecipa al pezzo Johan Hans Hegg degli Amon Amarth, con la sua voce gutturale non troppo snaturata. Nonostante questo interessante inserimento il pezzo è sempre al 100% Saxon.
‘Sons of Odin’ ha la stessa intensità di una storia raccontata davanti al fuoco mentre con ‘Sniper’ il combo riparte a tutta velocità.
‘A Wizard’s Tale’ è l’anello debole dell’album e non prende molto, ma i Saxon ci sanno fare introducendo un bell’assolo ed una bella parte di sola musica.
Le conclusive ‘Speed Merchants’ e ‘Roadie’s Song’ chiudono degnamente l’opera, dichiarandone il valore metallico.
Concludendo, ‘Thunderbolt’ è un buon album, allacciato più ai primi lavori che non agli ultimi. Chi preferisce i Saxon ultima maniera forse rimarrà un po’ deluso, visto il leggero calo di potenza, mentre ai veterani verranno in mente tanti ricordi.
Stà di fatto che, dopo tanti anni, il combo è più vivo che mai e di questo non possiamo che esserne contenti.