Recensione: Thunderheart
Son già passati quattro anni dal mio precedente incontro con i Greyhawk, i defender di Seattle che nell’ormai famigerato 2020 diedero alla luce il loro debutto “Keepers of the Flame”, ed eccoli tornare oggi sulle scene col nuovo lavoro, il qui presente “Thunderheart”. Partiti come classico gruppo da inserire nel gran calderone NWOTHM, corrente che recupera sonorità ed attitudine del metallo a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80, con questa seconda fatica i cinque di Seattle continuano esattamente da dove si erano interrotti, nel doveroso rispetto di tutti i diktat che il genere impone. Anche dal punto di vista strumentale i nostri non sgarrano di un accordo da quanto ci si aspetterebbe: la sezione ritmica si mantiene precisa, prediligendo tempi quadrati ma pronta a lanciarsi al galoppo quando serve, mentre le chitarre intrecciano riff immediati e melodie maschie riuscendo ad infilare qualche bel guizzo di quando in quando. A coronare il tutto la voce di Rev Taylor che, complice un bilanciamento dei suoni che lo mette maggiormente in risalto rispetto al debutto, mi ha ricordato una versione più enfatica di Jake Rogers dei Visigoth. Per chi ancora non l’avesse capito, la materia sonora è anche stavolta un heavy metal che più veterotestamentario non si può, ma mentre nell’esordio la componente più hard&heavy conferiva una certa scorrevolezza al tutto, in “Thunderheart”, che comunque esibisce una struttura molto simile, ogni elemento viene ammantato da un respiro declamatorio a volte troppo forzato, che finisce per smorzarne le qualità in favore di una teatralità non sempre gradita.
Questo scarto si nota fin dall’iniziale “Spellstone”, forse meno impattante di quanto mi sarei aspettato ma che alza i ritmi procedendo col minutaggio: il tono è più stentoreo rispetto al passato, e nonostante nella seconda metà del pezzo si galoppi a briglia sciolta si sente che il quintetto vuole puntare su altro. Un arpeggio languido apre “Ombria (City of the Night)”, mid tempo che profuma insistentemente di primi anni ’80 col suo alternare una strofa guardinga e ammiccante e un ritornello sfacciato, coronando il tutto con un bell’irrobustimento giusto in tempo per il finale. La title track incede con fare stradaiolo, salvo impennare l’enfasi in corrispondenza del ritornello, mentre l’improvviso abbassamento dei toni serve per prendere la rincorsa in vista del climax. “Rock & Roll City” prosegue sulle stesse coordinate ma con un fare più sicuro di sé, ricordandomi per certi versi una “Salt City” dei Visigoth meno propositiva ma ugualmente sorniona. Si arriva ora a “Steadfast”, inno scandito che si prende del tempo per caricare la tensione, marciando ostinato fino all’apertura delle ostilità a metà pezzo che lo tramuta in una cavalcata bellicosa. La battaglia dura solo un paio di minuti, al termine dei quali si torna al fare lento e marziale che aveva aperto il pezzo, in attesa di una nuova battaglia. Con “Sacrifice of Steel” i nostri calano la carta Manowar, impennando il tasso di tracotanza durante i rallentamenti eroici (che rimandano immediatamente al secondo lavoro degli impellicciati newyorkesi) e inframmezzandoli a qualche bella galoppata, per condire il tutto con la giusta enfasi nelle melodie. “The Last Mile” si apre su un arpeggio languido, quasi crepuscolare, per poi alzare la testa e svilupparsi come il classico pezzo tutto fratellanza, onore e melodie maschie, coronato da un bel lavoro di chitarre e cori virili per tenere alto il pathos. “Back in the Fight” alleggerisce il tono con un fare più classicamente heavy rock, declinando le caratteristiche del gruppo in modo più sbarazzino ma tornando gradualmente all’enfasi che permea “Thunderheart”, così da non risultare troppo fuori focus rispetto al resto dell’album. Un arpeggio acustico e dall’intenso lirismo introduce “The Golden Candle” anticipandone i toni drammatici. La canzone si sviluppa sui toni lenti e compassati della ballata, ammantandosi di un pathos parecchio caricato e rompendo gli argini nella seconda metà, prima di tornare a toni dimessi e malinconici giusto in tempo per chiudere il sipario ed accomiatarsi dai fan.
Con “Thunderheart” i Greyhawk confezionano un buon album, confermando sia i pregi che i difetti del debutto: se da un lato la passione del quintetto appare palpabile e sincera e la voglia di evolvere il proprio discorso in modo coerente da vita a canzoni ben concepite, solide e compatte, dall’altro si avverte ancora la mancanza della zampata che le renda memorabili e consenta al gruppo di fare il proverbiale avanzamento di livello, impedendo ai Greyhawk di distanziare l’agguerrita concorrenza. Consigliato ai più incalliti defender.