Recensione: Thy Harbour Inn
Reputo la formazione dei Great Master come quella in grado di sfornare un album di Epic Metal con tutti i crismi per divenire un classico del genere. La prova della loro abilità in ambito eroico la fornirono in occasione della rilettura del brano “The King” degli Heavy Load all’interno di quella scintillante uscita che fu Tales of the Northern Swords – A tribute to Heavy Load (qui recensione), del 2014, da parte della Underground Symphony.
Precedentemente a quella, i lagunari avevano sfornato due full length, Underworld (2009) e Serenissima (2012) mentre in tempi più recenti Lion & Queen (2016) e Skull and Bones – Tales from Over the Seas (2019). Tutti prodotti atti a sottolineare la cura per i particolari, anche a livello di artwork e un songwriting di classe. La componente barbarica, però, nonostante alcuni rimescolamenti di formazione era rimasta sempre un po’ in sordina, a favore di una proposta figlia di un Epic Metal di stampo elegante con il Power.
In questa metà del 2021 i Great Master stupiscono un po’ tutti virando verso un album, Thy Harbour Inn, sempre sotto l’egida della fedele Underground Symphony, che si compone di un insieme di antichi canti di marinai, ovviamente rivisitati in chiave più robusta degli originali e greatmasterizzati quanto basta.
Va registrato che l’iniezione di Acciaio inoculata all’interno della nervatura delle stesse canzoni da parte di Jahn Carlini & Co. si limiti al necessario, per intenderci non vi è sempre e per forza l’assalto di chitarre con doppia cassa assassina che si potrebbe attendere dalla stessa rivisitazione, ad esempio, da parte dei Running Wild (vecchia maniera, s’intende). “Long John Silver” è ripescata dall’album precedente e qui proposta in versione Radio Edit, sempre da Skull and Bones – Tales from Over the Seas viene suonata “Skull and Bones” in acustica. Le vere mazzate arrivano da “Leave Her Johnny” e “Rolling Down To Old Maui”, in pieno stile Running Wild/Blind Guardian, per la gioia dei fan dei Great Master ma anche per quella degli ultras delle due formazioni teutoniche. In chiusura, a mo’ di ghost track, la versione greatmasterizzata di Quindici Uomini sulla Cassa del Morto (Fifteen men on a Dead Men’s Chest), famoso brano simbolo de L’Isola del Tesoro.
I Great Master dimostrano di rispettare le tradizioni anglosassoni degli storici sea shanties approcciandosi a loro con deferenza stando bene attenti a non stravolgerne l’humus primigenio. Il risultato è un piacevole esercizio di resurrezione di antiche canzoni, che ancora oggi sprigionano un immaginario fatto di urla al cielo, ubriaconi addormentati su tavolacci, donnine allegre dietro compenso e fiumi di alcool a corroborare il tutto in qualche vecchia taverna color seppia posta in un porto a caso.
Al solito, i venexiani confezionano al meglio quanto avviluppa il Cd: sontuoso cartonato a libro a quattro ante con tutti i testi e la foto della band alloggiata sullo sfondo trasparente ove viene riposto il dischetto ottico.
Thy Harbour Inn: un’operazione simpatica ed accattivante, che ha un suo perché. Piuttosto che sentire qualche ciofeca tanto in auge di questi tempi vacanzieri val di certo la pena ascoltarsi tutti i pezzi ricompresi fra “Randy Dandy Oh” e “Long John Silver”. Garantita pelle d’oca in certuni passaggi e, perché no, pure qualche momento di malinconia misto a tenerezza per un passato che mai più tornerà in queste forme così tanto veraci e violente. Da segnalare la presenza della versione acustica di “Treasure Island” dei Running Wild che, in un conteso come questo, ci sta come il pane, il burro e le alici. Slurp!
Per l’album di Epic Metal citato a inizio recensione, evidentemente, ci sarà tempo più avanti…
Stefano “Steven Rich” Ricetti