Recensione: Tiara
Ho quasi supplicato la redazione di farmi scrivere la recensione di Tiara con mesi di anticipo, sì, mesi. Negli anni, infatti, i Seventh Wonder si sono fatti apprezzare da un pubblico sempre più vasto, creandosi uno spazio tutto speciale nel cuore degli appassionati del genere. Insomma non ero l’unico che aspettava trepidante l’uscita del quinto album di questa talentuosa band svedese, che, formatasi nel 2000, dopo alcuni cambi di line-up, si è saputa assestare su personalissime coordinate stilistiche, proponendosi con uno stile molto personale che ha portato i nostri a pubblicare un album più interessante dell’altro, fino a raggiungere il loro apogeo compositivo con Mercy Falls e The Great Escape. Di cosa parla questo nuovo concept del quintetto svedese? In sintesi la storia racconta di un pianeta e di un’umanità in caduta libera che vive molto al di sopra dei propri mezzi, spremendo fino al midollo il pianeta che li ospita con il loro sconsiderato modo di vivere. Ciò causerà le ire del potente “dio” che li condannerà alla dannazione. La salvezza potrà arrivare dalla sola cosa innocente e pura rimasta su questo pianeta: una bambina chiamata – indovinate un po’? – sì, Tiara. Sembra esserci una connessione tra i testi di Tiara, che a volte rimangono molto criptici, e The Great Escape. Sono sicuro che i fan più entusiasti troveranno le giuste connessioni tra le due storie.
NOTA
Come mia abitudine vorrei avvertire gli attenti lettori che, con questa recensione, sentivo fosse ancora una volta mio dovere analizzare, spero in maniera sufficientemente dettagliata, uno degli album progressive metal più attesi dell’anno. Ciò mi ha condotto a produrre uno delle mie interminabili disamine. Per chi, più che comprensibilmente, non volesse leggere tutta la chilometrica giaculatoria, al fondo di essa troverà una sintesi sbrigativa di quanto così faticosamente mi sono impegnato a vergare. A coloro i quali invece decidessero di accordarmi un po’ del loro tempo, auguro buona lettura.
Il Track-by-track
01. Arrival
Arriva da lontano un’apertura orchestrale il cui volume sale a colpi di rapide fughe di archi, melodie armonizzate e corni francesi: tutto a preannunciare l’inizio del viaggio.
02. The Everones
Quasi 50 secondi di riff metallico e lunghe note di synth disegnano una melodia sinistra e spettrale che apre il sipario su un ambiente claustrofobico, dove il basso e la doppia cassa perfettamente sincronizzati, passando per un paio di azzeccate variazioni in 3/4 + 4/4
ed una piccola progressione diatonica della chitarra ritmica (0:39), conducono ad una nuova scena. Adesso intorno a noi (0:48) è tutto un po’ meno malagiato. La voce di Tommy, venata di aggressività, regala preziosi secondi di ossigeno con un verso ben strutturato ed un ponte cesellato da doppia cassa e cori minimali, prima che la partitura faccia ripiombare in un denso liquido sintetico, nel quale voci digitali (1:14-1:28), prodotte da minacciose sirene cibernetiche, cercano di intrappolare l’ascoltatore e spingerlo verso l’abisso. A lui la scelta di restare sedotto dalle ipnotiche voci, o di afferrare nella trama compositiva una salvifica melodia di tastiera che fa di tutto per suggerirgli la direzione da prendere, ed evitare così di annegare. Si prende nuovamente ossigeno con il secondo verso ed un nuovo ponte che ci guida per mano verso il ritornello (1:47) in due parti, teatrale e voluttuoso, il quale, diversamente dal testo, trasmette fiducia ed energia. Un bridge di pochi secondi tutto giocato su un ostinato di chitarra e ride di batteria (2:17-2:20), lancia nuovamente la struttura inziale: il riff metallico a cui segue la strofa, identica nella melodia alla prima, ma con una linea di chitarra ritmica più complessa e contrappuntistica, le malevole voci delle sirene digitali, il verso ed a chiusura il ritornello. Il brano prosegue con un classico interludio alla SW (4:15-4:43) con la chitarra ritmica in primo piano che disegna una snella ascesa armonica e poi il solo di tastiere, sempre finalizzato ad arricchire la trama compositiva e mai a snaturarla. Nuova modulazione che riprende il tema di “Arrival” (4:44-5:18), qui reso epico e magniloquente in chiave metallara, successivamente alzato di un tono e mezzo ed ancora modificato e riplasmato, come acqua che cambia contenitore. Il brano si conclude circolarmente con l’ormai noto ritornello, il riff introduttivo ed una chiusura perentoria.
03. Dream Machine
Qualche secondo di suspense anticipa un riff tutto costruito su chitarra e tastiere che disegnano un intro in 4/4 dagli accenti sfalsati, dove un complesso intreccio di basso e chitarra si rincorre e si sovrappone ed un plastico drumming. Comincia il verso diviso in due parti ben distinte: la prima (0:50-1:05) più intrigante e adeguata, con chitarra ritmica e doppia cassa all’unisono ed un tappeto di tastiere dal suono fiabesco e molto vicino ai primi Symphony X, sulla quale svetta il cantato limpido come acqua sorgiva. La seconda parte invece (1:06-1:22) mi lascia un po’ l’amaro in bocca per via della presenza nel testo di onomatopee ripetute, a mio parere poco consone al mood dell’album. Segue il ritornello metallico e pulsante, ma un po’ easy e scialbo. Tant’è. Al min 1:42 un intrigante epilogo chiude il ritornello ed un ponte ancor più intrigante si riallaccia al verso successivo, legando queste due parti con un gustoso ostinato: sempre bello seguire la melodia descritta dal cantato ed i ricami virtuosistici del resto della band che ne determina il perfetto compendio. Poi nuovamente arrivano il verso ed il ritornello che a questo punto si ripete, scorrendo via più veloce del previsto. Molto bella la seconda parte della song, che dal min 3:14 sembra quasi un nuovo brano. Le luci si attenuano grazie ad una intro acustica, cui fa seguito una parte strumentale, un verso dalla melodia intrigante, il bel bridge, il solo di chitarra e la voce di Tommy, che (come cristallo liquido) è versato sulle partiture progressive, divenendo qui più scorrevoli e meno cadenzate. Di nuovo un classico unisono di chitarra e basso (4:41-4:45) che anticipa il ritornello, con il coinvolgente epilogo, questa volta in una nuova variazione e con una chiusura strumentale, sorretta principalmente da basso e chitarra, che davvero non lascia scampo.
04. Against the grain
Una intro di chitarra acustica arrangiata in maniera molto moderna preannuncia un più classico crescendo elettrico che culmina in un tipico passaggio di tastiera, basso e batteria in puro stile SW a suon di tempi composti (6+7 e 9+6) seguito da un ponte melodico di tastiere su un incalzante tappeto metallico: una goduria. Tutto si placa con il verso costruito in due parti. A restare sulla scena è solo Tommy che interpreta pregevolmente una toccante melodia, sorretta da un garbato pianoforte. Poi un inciso veloce e dinamico con piacevoli controcanti, che svela un classico ritornello alla SW dal piglio operistico e dal DNA metallico. Ancora il bell’unisono con il tempo in composti dispari e l’aggiunta di due battute alternative, poi il verso, questa volta suonato dall’intera band con la chitarra di Johan in bella mostra che ricama trame distorte a suon di corde a vuoto, armonici artificiali e rapide quartine. Di nuovo lo scattante inciso e l’entusiasmante ritornello in crescendo.
Segue una gustosa ed eterogenea parte strumentale composta per la maggior parte dalle classiche scorribande fatte di ostinati melodici in tempi dispari, unisoni ed un assolo di chitarra che nella prima parte reinterpreta il ritornello di uno dei prossimi brani dell’album. Menzione d’onore per il passaggio dal min 4:59 al min 5:21, con l’entrata della voce che disegna un ponte ultramelodico che io ormai canticchio non stop da giorni, e che basterebbe da solo come ritornello per una nuova canzone. Non fatevi però ipnotizzare dalla piccola e perfetta bellezza melodica di questo passaggio: correreste il rischio di perdervi l’esaltante arrangiamento di chitarra e basso all’unisono intenti a descrivere un contrappunto altrettanto emozionante. Segue una nuova parte strumentale dalla struttura ancipite. Da un lato infatti vediamo le tastiere che sottolineano le toniche della melodia, dall’altro lato una seconda sezione più dinamica dove corre sicuro un solo di synth a cavallo di un riff tellurico. Di seguito c’è il ritornello con l’avvincente chiusura di Tommy sull’ultima nota dell’acuto, sulla quale passa da voce di petto a falsetto: un grande. Il brano termina con una variazione dell’unisono iniziale di tastiera, basso e batteria in tempi composti e l’outro di chitarra acustica a chiusura circolare di questa coinvolgente song.
05. Victorious
Il seducente riff in 7/4, plastico e mutevole, si sviluppa in più versioni armoniche e ritmiche per poi aprire sulla strofa che scorre via veloce, complice una linea melodica catchy ed i cori accattivanti che come sottilissima brezza autunnale colpisce per poi sparire senza dare il tempo di farsi rivedere. Segue l’accattivante bridge ed il ritornello stereofonico che ormai da sei mesi ascoltiamo in giro su internet. Questa struttura si ripete per la seconda volta con alcune variazioni nell’arrangiamento del verso, come la rapida svisata chitarristica al min. 1:54, gli armonici artificiali al min. 2:03-2:06 ed un drumming intelligente e vario. Interessante la parte successive il lungo solo di tastiera (2:51-3:23), ancora una volta piegato amorevolmente all’interesse del brano. Dal min 3:24 viene proposto un verso molto saporito e del tutto rivisitato, che con un abile crescendo orchestrato dalla linea vocale (che richiamano nel testo la precedente “Against The Grain“) e dagli arrangiamenti teatrali, sfocia nel noto ritornello e nella drastica chiusura. Non c’è da meravigliarsi se questa traccia, assieme alla prossima, siano state scelte come brani promozionali dell’album.
06. Tiara’s song (farewell pt.1)
L’ostinato di synth annuncia un’apertura adrenalinica dove troviamo molti degli elementi tipici della band: figure all’unisono, ostinati melodici, drumming eclettico e preciso, e la capacità di far crescere e diminuire il mood del brano, che come marea comandata da una mano divina, prima travolge e poi si placa cullando verso riva. Ma la marea continua a martellare e la riva è ancora lontana. Onde alte e possenti (0:33) ci accompagnano lungo la melodia del verso, dove l’ostinato di synth che abbiamo ascoltato in apertura si inabissa per riemergere e di nuovo sparire nell’intricata ragnatela contrappuntistica costruita sotto la voce cristallina di Tommy, che da solo regge melodia ed armonia. Poi il pre-chorus, il bridge strumentale ed il ritornello, splendente e luminoso che ti viene subito voglia di ricantare; e l’outro conclusivo altrettanto entusiasmante e melodico, tanto da valere un riascolto. Ritorna il riff di apertura ed il verso, intelligentemente ricombinato per preservarne l’impatto. Seguono il ritornello ed il bridge. Splendido. Nella seconda parte del brano troviamo (4:01) il richiamo al ritornello della precedente Victorious, e dal min 4:45 si sviluppa una lunga parte strumentale che come sempre nei brani dei SW non è mai pretesto per inutili virtuosismi, ma ulteriore componente creativa e parte centrale del DNA della band. Gustosissimo il momento dal min 5:42 al min 6:16, dove alla voce, accompagnata dal pianoforte, si aggiungono rispettivamente cori ed organo, che spingono nuovamente al ritornello; e poi il bridge, che ti solleva da terra come un palloncino, ed il riff iniziale che bruscamente conclude il sogno.
07. Goodnight (farewell pt.2)
Un dolce pianoforte accompagna il cantato vellutato di Tommy che ci culla lungamente per poi affidarci a un inaspettato e pulsante crescendo elettrico, scandito da profondi accordi di pianoforte e pulsanti passaggi sui tom di batteria. Come collante c’è la liquida linea melodica tratteggiata garbatamente dalla voce, che incede fino al bridge acustico restituendo l’intima atmosfera iniziale grazie ad una brillante ed indovinata linea vocale se possibile ancora più consona ed efficace. Coinvolgente qui (1:44) la sapiente entrata in scena degli altri strumenti, coadiuvati da un drumming moderno e ponderato, ed una chitarra angolare e fluida, che dopo il ribollente pre-chorus (2:06-2:27) ci regalano un ritornello operistico ed evocativo. Particolarmente gradito dal sottoscritto il momento strumentale successivo al ritornello (2:55-4:10). Lo leggo come un modo personalissimo di interpretare la lezione dei capiscuola Symphony X: ostinato melodico di pianoforte in 12/8, cui si aggiungo, battuta dopo battuta, gli altri strumenti, assestandosi in un metallico caleidoscopio multiforme, dove una massiccia doppia cassa e un synth in primo piano vengono affiancati da un’azzeccata e minimalista linea di pianoforte. Segue il lungo solo di chitarra ed il ponte, piccolo ricamo a suon di unisoni, che apre al ritornello, che rapisce per la splendida e teatrale reinterpretazione di Tommy. I riflettori si spengo per riaprirsi delicatamente solo un attimo su una estiva festicciola serale all’aperto, in riva al lago, dove voci gioiose chiacchiere spensierate si mischiano a un coro di amici che canticchia felice davanti al fuoco il ritornello di “Tiara’s Song“: un’atmosfera che scalda il cuore.
08. Beyond Today (farewell pt.3)
Ballata tutta costruita su pianoforte e voce, che, grazie ad un abile arrangiamento (il controcanto femminile, l’intelligente inserimento dei cori e degli archi), alla partitura varia e ricca di idee, al testo poetico – e, soprattutto, grazie all’interpretazione sentita e toccante di Tommy – sa davvero emozionare. Ed emoziona tanto durante, quanto e soprattutto alla fine del pezzo, quando l’arrangiamento si ripulisce per lasciare spazio ad un violino celtico che, riprendendo la melodia di Tiara’s Song, rassicura con la sua allegra carezza folk che odora di legno e pub del nord. Chiudo gli occhi e mi faccio cullare ancora qualche secondo.
09. The Truth
Una bella e discorsiva introduzione di basso in chord tapping che richiama le dolci vibrazioni di “Beyond Today” fa da preludio ed un evocativo tema di archi accompagnato da un pulsante ostinato di percussioni ed un elegante e tecnico basso in tapping che forniscono il tappeto ideale su cui si sviluppa la canzone forse più da musical dell’intero album. Incalzante la linea vocale fino all’ingresso del possente coro che presto si dilegua lasciando a noi la sola voce femminile. Di qui inizia una magniloquente parte strumentale che tra contrappunti di archi e corni francesi drammaticamente chiude il sipario.
10. By the light of the funeral pyres
Meraviglia sempre la qualità e la mole di idee che questi ragazzi riescono ad inserire nei loro brani. Prendete questa “By the light of the funeral pyres”, per esempio. Nonostante sia uno dei pezzi più quadrati ed essenziali dell’intero album, già solo nei primi 30 secondi troviamo un 4/4 irrequieto ed energico che sembra la ritmica sotto steroidi di “Mission Profile” dei Threshold, cavalcata da una prepotente linea di synth. Poi l’unisono iperbolico, il ponte, il rallentamento di tempo ed il verso, composto dall’aggressiva ritmica iniziale, accompagnata da un ostinato di tastiera che cola Symphony X da ogni parte. In men che non si dica siamo proiettati, grazie alle avvincenti melodie, al bridge in puro stile SW ed al ritornello e poi al bridge di uscita, che sfocia nuovamente sul riff iniziale. Di nuovo il secondo verso, il ponte, il ritornello ed il bridge di uscita. Segue l’unisono chitarra/basso, il solo di tastiere e quello di chitarra: ben confezionati i soli, esaltanti le basi. La canzone più essenziale dell’intero album regalerà piccole perle preziose a chi saprà cercarle.
11. Damnation below
Come una tempesta che si vede montare da lontano, il fill all’unisono di chitarra e synth incede per una decina di battute per poi gettarsi sul muscolare riff in 4/4 (0:26). Al min 0:38 entra la linea vocale armonizzata in lontananza da una rarefatta ottava, e poi un cremoso bridge strumentale (0:59). Di nuovo il verso, con la batteria più incalzante e la voce gloriosa di Tommy che sale di una ottava. Segue il bel ponte strumentale ed inaspettato arriva un pre-chorus in 5/4 a 1:40 che cambia radicalmente le carte in tavola, con la sua linea gemella di chitarra e basso da montagne russe, che nella seconda parte destina la chitarra ad un ruolo di semplice supporto ritmico (1:53), mentre il basso continua a girare sulla precedente vorticosa linee armonica. Al min 2:06 ci attende il ritornello, asciutto e diretto, con la voce di Tommy, a cuneo di un combo dal suono quadrato come un martello pneumatico. Tutto si ripete più o meno con la stessa struttura per la seconda volta, nemmeno a dirlo con le debite piccole modifiche di rito, che rendono ancor meno scontato l’ascolto del verso, del pre-chorus, del ponte strumentale e del ritornello, precisi come un bisturi. Dal min 4:00 segue una lunga parte strumentale, costruita in un inesorabile crescendo, che al min 4:45 veste i panni di un colloso ostinato che sale di una quarta esatta per poi tornare alla tonalità originale dopo poche battute, lasciando spazio a un divertente e impensato mini-interludio (5:04) in puro stile Royal Hunt. Al min 5:40 troviamo il bel solo di chitarra. Senza nulla togliere alla pregevole interpretazione del solista, invito a prestare attenzione anche alla ricchezza del background sonoro ed al susseguirsi di idee melodiche e fantasiosi arrangiamenti che avrebbero fornito spunto per almeno un’altra canzone. Il brano si chiude col ritornello e con una rapida riproposizione del riff iniziale.
12. Procession
Giusto un piccolo intermezzo interpretato da voce ed organo come preludio della lunga suite che ci sta aspettando.
13. Exhale
Archi drammatici e lente note di un carillon scongiurano in me il dubbio di star ascoltando i primi secondi di “Metropolis”. Una lontana campana segna l’ora: presto qualcosa succederà, qualcosa di spettrale, oscuro, lo sento. Ed invece arriva l’urlo cristallino di Tommy a squarciare il buio e salvarci dalla dannazione, passando da un A#5 a un D#6, cantato a un’altezza siderale. Gli strumenti prendono organicamente posto in un crescendo cadenzato e solenne che è interludio ad un classico intro speed, tagliente come ghiaccio. Entra il verso preceduto da un ponte di quattro battute, perfetto epilogo alla prima parte del brano. La linea melodica del verso mi ricorda la produzione anni ‘90 dei Fates Warning, se non fosse per la timbrica di Tommy e per gli arrangiamenti più frattali, soprattutto nel successivo pre-chorus, dove un intrigante gioco di controvoci e il synth (che elabora melodie della prima parte del disco) fugano ogni dubbio. Finalmente l’epico ritornello, tutto di un fiato, che gioca su accelerazioni e rallentamenti tenuti assieme dalla suggestiva linea melodica degna di un famoso musical. La struttura si ripete fino al min 4:25, dove un acuto in E6, che scende morbidamente a note profonde e vellutate come seta, e dà il via ad un interludio strumentale (4:35-6:46): perfetto compendio delle caratteristiche della band. Melodie ed ancora melodie, perfino nei più piccoli passaggi, perfino negli arrangiamenti più nascosti: linee di chitarra tecniche e fantasiose, drumming diagonale ed intelligente, controcanti e cori solenni, linee di basso al limite delle possibilità umane, tastiera regina di melodie magniloquenti e progressive con i suoi ostinati ipnotici: e ancora unisoni repentini, ritmiche rabbiose, cambi di umore, divertenti richiami a melodie dei precedenti brani (sentite da 5:16 a 5:46 l’ennesimo richiamo a “Tiara’s Song”), scambi di assoli tra chitarra e tastiera, e toccanti momenti acustici con pianoforte e voce. Chiude il brano il ritornello ripetuto più volte e un nuovo disarmante acuto in E6 che introduce un finale da pelle d’oca, sinfonico, roboante, con la melodia di “Arrival” qui rinvigorita alla ennesima potenza, che si porta via tutto, strappando anche la carta da parati dal mio appartamento.
In sintesi
In tempi dove è difficile trovare una propria identità, forzati come siamo tutti ed a tutti i livelli ad omologarci, i Seventh Wonder ci sono riusciti. E Tiara suona come sa suonare solo un loro album. D’altronde quando “fare il massimo” diventa il tuo stile, finirai inevitabilmente per ripeterti, no? È questa la matassa da sciogliere. È questa apparente contraddizione il nocciolo della questione. Quando ho ascoltato per la prima volta l’album, davvero non mi aspettavo di essere sorpreso da innovazioni epocali, come non pensavo di scendere in vestaglia in mezzo alla strada ed urlare al mondo l’uscita del nuovo Images & Words. Quello che desideravo e che alla fine ho ricevuto è stato essere ammaliato dalle melodie stereofoniche, dalla paziente costruzione di sonore architetture frattali, dalle strutture superellittiche dei pezzi e dal loro forviante gioco di sponde, dagli unisoni virtuosistici e dalle linee di basso da montagne russe, dalle cerebrali ritmiche dispari e dall’amanuense cura degli arrangiamenti fin nel più piccolo dettaglio. Ho ricevuto per l’ennesima volta insomma la meraviglia di ascoltare un album dei SW e quella loro personalissima capacità di gonfiare e sgonfiare le trame compositive dei brani, in una successione senza fine di fantastici colpi di scena, che alla fine formano una canzone, la quale magicamente (ed alla perfezione) si dispone nel puzzle di un album completo. Tiara è un lavoro che, come i precedenti, offre all’ascoltatore generosità artistica, perizia estrema, splendide melodie, sincerità e talento. A bizzeffe. Ma Tiara offre anche, a differenza dei predecessori, una teatralità più spiccata nelle melodie e negli arrangiamenti, un Tommy Karevik sfavillante ed una produzione che valorizza il fantastico lavoro fatto da Johan, dai due Andreas e da Stefan.
Gli unici elementi che non ho molto apprezzato e che mi hanno indotto ad abbassare la votazione dell’album sono concentrati in una certa farraginosità nelle melodie dei primi pezzi. Lungi da me a questo punto lanciarmi in un sermone su cosa sia o non sia il prog metal, sul suo stato di salute, o su come si stia evolvendo o snaturando. Mi si conceda solo dire che i tempi cambiano e che oggi è impensabile attendere, ognuno arroccato nel proprio eremo digitale, la prossima pietra miliare del genere. Stiamo vivendo un passaggio generazionale, una consegna del testimone, che lo si vogliamo accettare o no. Per cui una buona mossa potrebbe essere a volte quella di non considerare i gruppi di oggi come il matematico, inevitabile surrogato dei gruppi di ieri. Dare credito a band come i Seventh Wonder vuol dire dare credito ad artisti che con la propria personalità e talento reinterpretano un genere, senza la presunzione di creare nulla di assolutamente nuovo, ma con quell’orgoglio e quella serenità che dà solo il lavoro ben fatto.