Recensione: Tides of Time
A quanto pare, il mio 2024 è legato a doppio filo alla Grecia, e più nello specifico ad Atene, anche dal punto di vista musicale. Dopo i ritorni di Innerwish e Triumpher, infatti, una nuova compagine arriva oggi dalla terra di Pericle e Platone per scaldare i miei ascolti di fine anno. Gli ateniesi Desert Near the End, per la verità, non sono proprio novellini: “Tides of Time” è infatti il loro sesto sigillo sotto questo nome (prima si sono chiamati anche Stormbringer ed Eventide), e prosegue con diligenza e passione l’opera di sviluppo musicale del combo attico. La ricetta dei cugini mediterranei è presto detta: un roccioso power metal di stampo americano, secco e furente, che si screzia di thrash quanto basta per sfoggiare la giusta ferocia senza sacrificare la melodia, plasmata dalla ricerca di pathos tipicamente ellenico. Il risultato è un metallo vigoroso e compatto, che paga un pesante dazio agli Iced Earth (le coordinate del gruppo sembrano assemblate apposta per colmare il vuoto – temporaneamente? – lasciato dal gruppo a stelle e strisce) ma non si vergogna di mettere sul piatto anche qualche elemento più personale. Le tastiere vengono usate con parsimonia, più come legante atmosferico che altro, lasciando il centro della scena al resto degli strumenti e, soprattutto, alla voce piena e iraconda di Alexandros, una sorta di Barlow più furente. I pezzi di “Tides of Time” sono tutti piuttosto lunghi – una sola traccia non raggiunge i cinque minuti – e ciascuno di essi sviluppa un discorso complementare agli altri, pur mantenendo alcuni elementi comuni per non perdere organicità. Metallo duro e puro, insomma, pensato per i defender più oltranzisti ma non privo di attrattive anche per chi vorrebbe qualcosa di più strutturato: il quintetto mescola con perizia irruenza, carica drammatica, momenti introspettivi ed enfasi creando un lavoro denso, prepotente e arcigno. Per la verità, in qualche punto il gruppo sembra indeciso sulla strada da prendere e questo porta ad inceppare l’ascolto di tanto in tanto rendendolo meno digeribile, ma grazie a un approccio bellicoso i nostri si rimettono subito in carreggiata.
Il sipario su “Tides of Time” si apre col botto: la partenza incombente di “City of Eternal Flame” cede presto le luci della ribalte a un riff che i fan degli Iced Earth apprezzeranno. Il piglio cupo e furente del pezzo di ammanta di drappeggi gelidi che, uniti ai rintocchi delle campane, ne acuiscono la malignità tra una sfuriata e l’altra, sfumando in un breve intermezzo più compassato e dal taglio solenne prima di tornare a picchiare. Tastiere luciferine si ritagliano il loro spazio tra un riff e l’altro, riecheggiando l’inferno dantesco messo in musica tempo addietro da Schaffer & C. e traghettandoci al finale di una traccia che sarebbe stata anche una perfetta traccia conclusiva, visto il suo taglio climatico e ricco di pathos. Invece siamo solo all’inizio delle mazzate, come sembra dirci la successiva “Ascension”: i ritmi si abbassano, seppur di poco, sostenendo un mix tra possanza trionfale e sporadiche e galoppanti accelerazioni. Una melodia carica di pathos sognante introduce invece “Oceans of Time”: in breve il gruppo torna alla carica con riff vorticosi e furibondi che esplodono nel ritornello, che riprende la melodia iniziale in chiave più stentorea. “Children of Lethe” sembra tirare il freno, sorretta da una melodia intima e narrativa spezzata, di tanto in tanto, da improvvise impennate più violente. Il pezzo si sviluppa lentamente, caricando enfasi battagliera per acquisire un fare anthemico cupo e determinato, prima di sfumare nuovamente nella melodia iniziale e ricominciare da capo per un secondo giro di giostra. “Half Learned and Long Forgotten” si butta sul groove scandito dell’heavy più marziale, ricamando su una base ritmica quadratissima melodie che di volta in volta si fanno inquiete, sognanti e solenni. I nostri ne approfittano per infilare una serie di finte partenze per suonare la sveglia, alternando calma e furore per poi tornare ai ritmi marziali incontrati all’inizio, chiudendo il pezzo con note arcigne. L’attacco di “Sunset Fields” riecheggia la colonna sonora di qualche horror d’annata, con la sua atmosfera decadente e vagamente esotica. L’ingresso in scena del resto del gruppo sviluppa il pezzo come una marcia sanguigna e solenne velata qua e là di inquietudine, alternandosi tra melodie cupe e sussurrate e momenti in cui il gruppo mostra i muscoli. “Burn like the Sun, Shine like the Dawn”, dopo un’apertura compassata, si lancia alla carica sfruttando chitarre cafone e melodie d’assalto, infarcite di tanto in tanto con qualche squarcio più trionfale, mentre “Damnation” torna alle melodie inquiete e i ritmi blandi della marcia cupa e luciferina, sfruttando le intromissioni vocali di Ruby Bouzioti per fungere da oscuro contrappunto al più iracondo Alexandros. L’intermezzo acustico che occupa l’ultimo terzo del pezzo ne sfuma la carica inquieta con note quasi etniche, chiudendolo con una nota meno opprimente e consegnandoci la conclusiva “In the North of Every Man’s Heart…”. L’arpeggio dimesso del secondo ospite dell’album, Nik Rock, sorregge la voce di Alexandros in un pezzo crepuscolare, intimista e rassegnato: una sorta di power ballad sfiduciata e solenne che acquista pathos fino al climax finale.
“Tides of Time” mi è piaciuto: i Desert Near the End hanno creato un lavoro compatto e dinamico, che stabilisce fin dal primo minuto quale sia il posto che gli ateniesi intendono occupare (e soprattutto al posto o al seguito di chi) e miscela con successo elementi da vari generi per creare un prodotto diretto ed impattante senza rinunciare ad atmosfere sentite e a panneggi più oscuri. Inutile dire che i fan degli Iced Earth lo adoreranno, ma sono abbastanza sicuro che anche gli amanti del power più veemente e nerboruto avranno di che gioire.