Recensione: Tied to the Trax

Di Andrea Bacigalupo - 14 Giugno 2020 - 19:41
Tied to the Trax
80

Siamo a luglio del 1986, al mondo metallico non viene concessa tregua: si deve ancora riprendere dal devastante scossone causato da ‘Master of Puppets’ dei Metallica, uscito pochi mesi prima, che già si profila all’orizzonte l’assalto della nube ardente provocata dalla detonazione di ‘Reign in Blood’ degli Slayer, che uscirà ad ottobre.

Solo questi due album basterebbero a segnare, non solo l’anno in corso, ma un’epoca, ed invece non è finita.

Sappiamo che i Mercyful Fate si sono sciolti l’anno prima, con lo sconforto di tutti o quasi, ma il loro leader, il principe delle tenebre King Diamond, che non si è dato per vinto, fa uscire ‘Fatal Portarit’, primo ed indimenticabile lavoro solista, un demone un po’ più anziano, la cui dieta è a base di pipistrelli e che di nome fa Ozzy Osbourne, mette in testa tante domande con ‘The Ultimate Sin’ e il suo stile più ‘commerciale’ rispetto ai lavori del passato, stessa cosa combinano i Judas Priest con il controverso ‘Turbo’.

Ci sono poi l’esordio dei Flotsam and Jetsam, con ‘Doomsday for the Deceiver’, ed il secondo capitolo, ‘Eternal Devastation’ dei Destruction, folgori a ciel sereno di impatto a largo raggio.

Non basta, a luglio c’è tanta aspettativa: di lì a poco usciranno, ad esempio, ‘Orgasmatron’ dei nuovi Motorhead, per la prima volta in formazione a quattro, e ‘Peace Sells … But Who’s Buying?’ dei Megadeth, soprattutto sono in dirittura di arrivo gli Iron Maiden con ‘Somewhere in Time’, il successore di ‘Powerslave’.

E poi si aspettano i Metal Church, i Dark Angel, i Kreator, i Possessed e l’esordio dei Nuclear Assault, già conosciuti per avere nelle proprie file l’ex Anthrax Dan Lilker e tutti quelli che non ho citato per mancanza di spazio.

Insomma, all’epoca la scelta sul mercato era veramente vasta e questo ci aveva portato a fare delle scelte: gli album principali avevano trovato subito posto nelle discografie di praticamente tutti i fans, mentre per i gruppi meno importanti o sconosciuti si era ricorsi al metodo di condivisione di allora: la cassetta. Ci si divideva l’acquisto dei dischi, facendo magari un unico ordine per risparmiare sulle spese di spedizione o per ricevere in regalo una maglietta, si stava ad aspettare con ansia un mesetto e poi … via di registrazione.

Questo portava si ad ascoltare tanto, ma presi dai capolavori disumani sopracitati, si finiva per trascurare lavori validi che, pur piacendo, rimanevano lì, dentro una piccola custodia di plastica uguale a tante altre.

Tra questi ‘Tied to the Trax’ dei Purgatory, band statunitense che oggi si confonde in mezzo ad un’altra quindicina avente lo stesso nome, ma che all’epoca era riuscita, per un certo periodo, a farsi notare.

Quello che mi aveva colpito del platter era la copertina: veramente terribile, con quel personaggio giallo ed indemoniato che si liberava dalle rotaie. Mi aveva però incuriosito e, letta una recensione, mi ero accollato il rischio dell’acquisto a scatola chiusa, facendomi promotore, poi, della distribuzione tra gli amici.

Beh, l’abito non fa il monaco e ‘Tied to the Trax’, ieri come oggi, mi ha colpito come una mazza ferrata, con il suo Speed Metal grezzo come pochi ma trascinante, soprattutto genuino, risultato di buona tecnica e di tanto pathos.

I Purgatory sono essenzialmente veloci, non eccessivamente come il Thrash di Metallica, Slayer e Dark Angel, ma comunque di buon tiro, avvicinandosi di più agli attacchi sonici di Abattoir, Savage Grace, Maniac ed Helstar.

Il sound è caratterizzato da una scura  pesantezza, data da un pregevole ed importante lavoro del basso, tenuto in molta evidenza e dall’aggressività data da una voce sporca ma intensa, di buona interpretazione e dal lavoro tagliente delle chitarre.

Le tracce risultano, quindi, inquietanti ed, allo stesso tempo, avvincenti, questo grazie anche ad una buona produzione che è riuscita ad evidenziare bene il lavoro di tutti gli artisti senza pulire troppo i suoni, ma dando loro un buon corpo.

La batteria che simula la partenza lenta ma inarrestabile di un treno ed il successivo attacco di ‘Tied to the Trax’ fa venire voglia di fuggire da un qualcosa di oscuro. Il brano è potente, veloce ed incisivo, con un riff che sega le ossa ed una batteria che martella.

Deep Into the Red’ è una corsa a cento all’ora e lascia senza fiato. Un pezzo oltre misura che entra nell’anima con la sua forza d’impatto. Basta questo per intuire il potenziale che avevano i Purgatory.

Screamin’ Machine’ gronda cattiveria nel suo potente tempo medio, nell’isterico urlo del refrain, nell’improvvisa accelerazione che porta agli scambi di assoli e nel devastante lavoro di batteria.

La forza di ‘Night Crawler Bitch’, ‘Fear of the Night’ e ‘Crush the Black Cross’ inchioda. In esse si sente l’influenza degli Iron Maiden, estremizzata nei duelli tra le asce, ma anche tanta personalità.

Le idee dei Purgatory sono senz’altro buone.

Lost Angels’ dà un secondo di pausa, con il suo arpeggio profondo, prima di partire al galoppo lancia in resta per mezzo di ritmiche compresse ed una batteria che massacra. L’interludio struggente e disperato sorprende. Questo è uno dei brani maggiormente riuscito, completo, con una buona prova vocale ed un gran lavoro solista.

Segue ‘Valley of the Shadows of Death’, in cui la velocità è frammentata da oscuri tempi medi che ne ampliano l’impronta massiccia.

Chiude ‘Purgatory (Shattered Vision)’, un brano duro come la roccia che prende forza nella sua angoscia e che dimostra che i Purgatory riescono ad essere incisivi anche quando non corrono.

Con ‘Tied to the Trax’ si chiude praticamente la storia dei Purgatory, che hanno successivamente inciso l’EP ‘Dr Pain’ nel 1989 per poi sciogliersi l’anno dopo.

Da allora i vari componenti hanno preso strade diverse, suonando in band appartenenti più che altro al mondo underground, riunendosi ogni tanto senza più incidere, mantenendo vivo lo spirito di una band che meritava molto di più rispetto a quanto è riuscita ad ottenere.

Album dalle forti emozioni, rispolveriamolo.

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