Recensione: TIIT
Il deathcore, unione scellerata fra death e famiglia *-core, questa intesa nella sua accezione più generica del termine, è da tempo terra di conquista di act provenienti da oltreoceano. Siano essi americani, siano essi australiani / neozelandesi, siano essi britannici.
Come tutte le regole, ci sono le eccezioni. Una di questa è particolarmente gradita poiché proviene dall’Italia. Si tratta infatti dei Sun Of The Suns che, con il loro “TIIT”, debuttano ufficialmente sul mercato discografico internazionale.
Forti del talentuoso ausilio di Francesco Paoli (Fleshgod Apocalypse) alla batteria e di Simone Mularoni (DGM, Empyrios) al basso, i tre componenti di base, Luca Dave Scarlatti alla voce, Marco Righetti e Ludovico Cioffi alle chitarre, hanno saputo, sin da subito, metter su un sound modernissimo, ai vertici mondiali per quanto riguarda capacità di esecuzione, produzione e professionalità. Un mix che rende “TIIT”, in assoluto, uno delle propaggini più avanzate, artisticamente e tecnicamente parlando, del ridetto deathcore.
Come prima caratteristica, il mostruoso impatto frontale di un suono perfetto, cristallino, pulitissimo, in grado di erogare un numero esorbitante di watt (‘The Golden Cage’). Una tremenda mazzata sui denti che sconquassa la scatola cranica in virtù di un insieme di musicisti che svolgono il proprio compito affiatati gli uni agli altri. Solo così, difatti, si possono mettere assieme le forze al 100% per emettere quanta più potenza possibile. Righetti e Cioffi innalzano uno spaventoso muro di suono grazie a un riffing granitico, possente, a tratti devastante. Muro puntellato da una sezione ritmica che si è una delle migliori in assoluto nel metal estremo, irreprensibile sia quanto rallenta sino ai pochi BPM di sconquassanti stop’n’go, sia quando diverge per la tangente che porta al macello dei blast-beats (‘Obsolescence Corrupted’).
Malgrado un bagaglio personale di tecnica elevatissima, però, il combo tricolore evita di lasciarsi andare dietro a sterili manifestazioni di bravura ma, al contrario, si concentra sulle singole canzoni, dimostrando anche in questo caso di eccellere nella composizione. Ottimo l’innesto di campionature e tastiere, rigorosamente in sottofondo per aumentare, semmai che ne fosse stato bisogno, la profondità di un suono davvero impressionante per l’altissimo livello che raggiunge il binomio sfascio totale / intelligibilità (‘Of Hybridization and Decline’). Più che buono l’inserimento della melodia, rinvenibile soprattutto nei soli di chitarra (‘Flesh State Drive’), che così riesce ad arrotondare un po’ qualche spigolo altrimenti troppo acuminato.
Il tutto condotto dall’interpretazione vocale di Scarlatti, sorprendente in quanto a sicurezza dei propri mezzi, cattiveria e aggressività; grazie a un roco growling (sembrerebbe un assurdo ossimoro ma non lo è) che prende per mano i vari brani del disco e li conduce con fermezza lungo una linea sottile, che rappresenta lo stile del gruppo, il quale non muta al variare delle fermate. Sì, perché la varietà del songwriting non è seconda a niente e a nessuno. In un genere che, per natura, tende ad appiattire le song, i Nostri schivano con maestria ogni possibile trappola, riuscendo a imbastire un insieme di tracce riconoscibili con facilità le une dalle altre, seppure allineate lungo la succitata linea.
Ultimamente si legge in giro di technical deathcore. Lo scrivente è sempre convito che le sotto-sotto-classificazioni aiutino il caos, tuttavia è innegabile che i Sun Of The Suns in quanto a tecnica, appunto, non siano secondi a nessuno. Ma, anzitutto, non sono secondi a nessuno per aver elaborato un qualcosa di assolutamente sconquassante, una macchina cibernetica da annichilazione totale che è la carta di identità di un qualcosa di dirompente, che esplode con la potenza di una testata termonucleare (‘Hacking the Sterile System’). Non per distruggere ma per creare.
Esordio col botto, per i Sun Of The Suns e il loro “TIIT”. Esordio che li pone immediatamente ai vertici del metallo oltranzista di ogni continente. Esordio si può dire fatto tutto in casa, giacché l’etichetta è la Scarlet Records. Finiti i tempi, quindi, in cui il nostro Paese non era la serie B del metal globale.
Da non perdere.
Daniele “dani66” D’Adamo