Recensione: Time does not Heal
Il 1990 è un anno fondamentale per la scena metal: sancita ormai inderogabilmente la fine del periodo d’oro del thrash (nonostante gli ultimi grandi capolavori di Megadeth e Slayer), esplode il fenomeno death, capitanato dagli astri nascenti della scena floridiana, su tutti Death e Morbid Angel. Proprio in un periodo in cui i fasti della leggendaria Bay Area paiono essere ignorati, i Dark Angel (gruppo attivo già da nove anni) danno alle stampe Time Does Not Heal: un capolavoro.
Un disco stupendo e sfortunato, “reo” di essere stato pubblicato in un periodo in cui, evidentemente, le attenzioni del pubblico e dei media erano ormai totalmente focalizzate sulla new-sensation di Tampa.
Musicalmente, il disco è in realtà un ideale punto di incontro tra le due correnti menzionate: un thrash/death oscuro e monolitico che, nonostante l’evidente matrice slayeriana, risulta personale e originale. Il tasso tecnico è elevatissimo, complice una line-up spaventosa (su cui si eleva il mostruoso Gene Hoglan, autore di una prova esemplare) e un gusto non comune per la ricercatezza compositiva, testimonianza di una grande ispirazione in sede di song-writing. Del resto è celebre l’etichetta esibita dalle prime copie stampate (nel 1991), che segnala la presenza di ben 246 riffs in sole nove canzoni, aspetto che, se da un lato compromette l’immediatezza del disco (che necessita di una serie innumerevole di ascolti), dall’altro aumenta ulteriormente il suo valore.
L’album è molto lungo rispetto ai classici standard thrash (la durata totale sfiora i 70 minuti per una media di oltre 7 minuti a canzone), è questo, a giudizio di chi scrive, costituisce un altro punto a favore della band, abile nel rivoluzionare gli schemi del genere e consapevole dei propri mezzi.
Nel dettaglio, Time Does Not Heal è frutto della mente malata e geniale di Hoglan, che si è occupato di scrivere le parti musicali (coadiuvato dal chitarrista Brett Eriksen) e la quasi totalità dei testi. La line-up è completata da Eric Meyer (secondo axe-man), Mike Gonzales (al basso) e Ron Rinehart, potente singer il cui stile (spesso “esasperato”) è stato oggetto di controverse diatribe tra i fan del gruppo.
Il five-piece apre le danze con la title-track, uno dei classici dell’album. Dopo una breve introduzione acustica (ad opera dello stesso Hoglan), si mettono immediatamente in luce le principali caratteristiche del sound del combo californiano: frequenti cambi di tempo, accelerazioni, riff taglienti e precisi, un connubio efficacissimo di tecnica e violenza esecutiva. Un brano perfetto. Il discorso prosegue con Pain’s Invention, Madness, uno di quei pezzi che rappresentano efficacemente il thrash metal (e non solo) al massimo delle sue potenzialità: attorno al cantato isterico di Rinehart (qui alle prese con un testo-fiume scritto da Hoglan) si avvolge un tappeto ritmico pesantissimo, frutto del lavoro delle due asce, che sul finire della canzone si esibiscono in una sfuriata esemplare, che farà le gioie di tutti gli headbangers.
Il livello generale si mantiene altissimo man mano che l’ascolto procede con le successive canzoni. Act Of Contrition, The New Priesthood (una mazzata sui denti), Psychosexuality (dotata di un’insolita melodia orientaleggiante e arricchita da uno splendido chorus), Trauma And Catharsis o Sensory Deprovation: tutti episodi in cui i Dark Angel dimostrano la propria abilità nel trovare soluzioni sempre nuove e interessanti, imperniate (come è giusto che sia) sul lavoro della coppia chitarristica, protagonista di duelli al fulmicotone e accompagnata da una sezione ritmica precisa e fantasiosa.
Menzione d’onore, infine, per altri due highlights del disco, ovvero la magnetica An Ancient Inherited Shame e, soprattutto, A Subtle Induction, una song dall’incipit sinistro che sfocia successivamente in una violentissima cavalcata metallica: uno dei punti massimi dello speed/thrash di sempre che conclude un album meraviglioso.
Il capolavoro musicale è inoltre arricchito da testi di pregevole fattura che, almeno nel thrash metal, risultano tra i migliori che mi sia mai capitato di leggere. Segnato da alcune traumatiche esperienze (l’infanzia di Gene Hoglan è costellata di violenze), il gigantesco batterista si confessa nelle proprie lyrics, ripercorrendo episodi legati a stupri, abusi e turbe psichiche, partorendo un concept tetro e sofferto (come si avince dalla copertina o dagli stessi titoli delle canzoni). Brani come Psychosexuality (dove Hoglan scrive: Can you feel the pain of these souls deranged? Can you feel the pain? I have lived inside these pathetic minds and its menacing ? Psychosis and lust is so dangerous ? Sexuality and its most diseased has enslaved us) sono esemplari a questo proposito.
In definitiva, si tratta di un grandissimo album, uno dei pochi capace di definire da solo un genere musicale. A giudizio di chi scrive, un’opera fondamentale del metal inteso in senso generale.
Line up:
Ron Rinehart – vocals
Eric Meyer – guitar
Brett Eriksen – guitar
Mike Gonzales – bass
Gene Hoglan – drums/rhythm guitar
Tracklist:
1) Time Does Not Heal (6:40)
2) Pain’s Invention, Madness (7:44)
3) Act Of Contrition (6:10)
4) The New Priesthood (7:15)
5) Psychosexuality (8:56)
6) An Ancient Inherited Shame (9:16)
7) Trauma And Catharsis (8:22)
8) Sensory Deprovation (7:36)
9) A Subtle Induction (5:11)