Recensione: Tiurida
Immaginate di trovarvi distesi in mezzo all’erba, all’ombra di un albero, con il sole che fa capolino tra le foglie, gli uccellini che cinguettano nella brezza vivace e un’immensa vallata ai vostri piedi.
Ora immaginate che all’improvviso risuoni un corno, cupo e profondo. Vi svegliate dal torpore, vi alzate sui gomiti. Forse avete sognato.
Un secondo corno. Gli uccelli continuano a cinguettare come se nulla fosse. Il corno suona per la terza volta, la valle rimbomba, sorda come un timpano. Vi alzate in piedi e vi guardate intorno: si alza il vento, qualcosa non va. Il corno emette una quarta nota, e alle vostre spalle echeggia un secondo corno di risposta, acuto e nervoso. Gli uccelli smettono di cinguettare.
Il corno risuona per la quinta volta e il secondo corno risponde per la seconda volta nel silenzio più assoluto. Sesto corno, e il secondo corno risponde per la terza volta. Il sole inizia a velarsi di volute di fumo. Settimo corno, quarto corno di risposta: due eserciti che si chiamano l’un l’altro da una distanza infinita. Il vento porta con sé un timido crepitare di fiamme.
Ottavo corno, quinto corno di risposta: l’orizzonte si tinge del bagliore di un colossale incendio. Il fumo oscura il sole e si carica di elettricità.
Nono corno.
Se mai un giorno dovessi assistere alla fine del mondo, vorrei che fosse proprio così, come dipinto dalla possente intro di Tiurida.
Se la musica è una visione, devo ringraziare Vakyas per avermi fatto “vedere” così tanto con il suo ultimo album. Perché se in alcuni generi la musica è un mero veicolo per stimolare la ghiandola surrenale e dirle “hey, produci tanta di quella fottuta adrenalina da mandare in pappa il cervello”, in altri generi la musica riesce a far riaffiorare istinti ancestrali di cui non abbiamo memoria diretta da secoli ma che magari sono tracciati nell’immenso bagaglio mnemonico del DNA.
Brevi deja-vu, vividi e improvvisi, che attingono da chissà quale bagaglio culturale collettivo dell’umanità e che portano la mente verso luoghi lontanissimi nel tempo e nello spazio, verso scenari che sono stati dei nostri padri e dei padri dei nostri padri, catapultandoci in una specie di stato di euforia primitiva in cui percepiamo le stesse paure e la stessa meraviglia dei nostri antenati.
A volte basta poco, anzi è proprio il poco che scatena le reazioni più inattese, perché poca musica consente al cervello di viaggiare più facilmente. Un riff di chitarra classica, un’eco ben messa, un rumore improvviso. Non è un caso che tra i picchi di lirismo più celebrati dell’estremo figurino la corsa disperata tra le foglie di Bergtatt o la catartica outro di Nordavind, un inno solenne e liberatorio tracciato da un unico riff di chitarra che invita a raccogliere i frammenti della propria anima, strattonata per 40 minuti di musica fuori da ogni luogo e tempo.
Non per ascrivere Tiurida al valhalla delle mostruose saghe in musica che hanno scritto a lettere d’oro la storia dell’estremo, ma c’è qualcosa in questo disco che trascende la mera tecnica un po’ barcollante della one-man band tedesca che quindici anni fa ha definito quel modo singolare ed evocativo di trattare folk, black ed heavy metal in modo vibrante e immaginativo. Siamo certamente tornati indietro rispetto all’epos esasperato di …Ok Nefna Tysvar Ty, ma questo non vuol dire che siamo di fronte a un’involuzione stilistica da guardare con sospetto e cipiglio.
Dopo il tentativo un po’ goffo di spacciare Heralding the Fireblade come un album in piena regola, Vakyas ha pensato bene di rispolverare le tecniche usate in quell’En Their Medh Riki Fara che fece rizzare le orecchie a una certa frangia di aficionados che si affacciava al mondo dell’estremo di stampo scandinavo dopo il collasso del black metal intransigente avvenuto attorno al 1994.
Orfano dunque di quella specie di heavy epico granitico, a tratti persino doom, con il quale si era accomiatato nel 2003, questo nuovo album presenta il caro vecchio miscuglio di voci pulite associate a parti folk e voci in screaming associate a passaggi più ferali, proprio come avveniva nella sacra doppietta d’esordio di En Their Medh Riki Fara e Magni Blandinn ok Megintiri. E quando Vratyas fa folk, per la miseria, fa folk sul serio: un esempio spettacolare è proprio “Where his Ravens Fly“, classico esempio delle sue tipiche ballate medievali scandito da una ritmica discorsiva, quasi recitata, totalmente assoggettata alle necessità divulgative della sua arte scaldica: la storia è il fulcro della canzone e gli strumenti un mero accompagnamento.
Questa “visione” della musica non sarebbe di per sé un problema, se non fosse per il fatto che il signore in questione non è mai stato famoso per la durata dei suoi album, e una traccia-riempitivo può rappresentare un potenziale pericolo nell’economia generale di un disco come questo, che tante energie profonde nella creazione di un’atmosfera solida e immersa nelle leggende e nelle tradizioni nordiche.
In quest’ottica, non aiutano tracce come “Tanfana“, strumentale pesante da digerire a causa dei riff francamente poco interessanti, anche se adatti a mantenere pigiato il piede su un acceleratore senza il quale l’album sarebbe diventato un disco folk puro che avrebbe avuto problemi persino a mostrarsi tra le pagine di Truemetal. Per fortuna, tra le pieghe delle tracce anonime c’è molto da celebrare: evocativa “Runes Shall You Know“, quasi certamente un refuso dell’epoca di Ok Nefna Tysvar Ty, e fulminante l’eccellente “Sunnavend“, una freccia piantata nel cuore del pagan morto e trapassato da eoni che riporta in auge i tempi gloriosi dei primi Mithotyn e dei primi Thyrfing; una stretta di mano agli Agalloch e una potenza visionaria che ringhia in faccia persino ad Arcturus, Solefald e perché no, anche ai primi Ulver: la chitarra elettrica è prepotente, la dose perfetta di violenza distesa su un tappeto di chitarre classiche che con il loro andirivieni senza respiro ricordano molto da vicino una delle tracce simbolo, a mio giudizio, del viking più fangoso e ispirato: quella “In the Forest of Moonlight” che ha celebrato la potenza degli arrangiamnti semplici ed efficaci dei Mithotyn a discapito della voce, dichiaratamente in secondo piano. E se vogliamo davvero racchiudere tutto lo spirito di Falkenbach in una sola cavalcata epico-pagana, “In Flames” potrebbe di diritto ergersi a gonfalone di un Vratyas perso tra i fiumi dell’epica bathoriana e recuperato tra le acque tumultuose di un vecchio folk-viking di cui molti sentivano la mancanza.
Nonostante i tanti momenti magici che scioglieranno i più nostalgici come neve al sole, l’impressione finale è che l’album scorra via troppo in fretta e che la mente non abbia il tempo di concludere il suo viaggio. Sarebbe stato bello sentire qualcosa in più, sarebbe stato bello continuare a “vedere” per altri minuti, o per altre ore. Un ritorno brutale alla realtà che condivide con mostri sacri come Hävitetty dei Moonsorrow, quella sensazione agrodolce di non voler abbandonare un mondo che si è avuto appena il tempo di assaggiare.
Tiurida è, a conti fatti, un album un po’ vapido, con poca struttura e sostanza, dotato però di improvvisi colpi di genio che gli donano quel quid in più impossibile da trasmettere a parole. Sbattetelo nel lettore CD e lasciatevi trasportare: la storia che racconterà sarà diversa per ogni paio d’orecchie, ed è proprio questo il lusso del “poco” di cui sopra: lascia spazio, e tanto, alla parte più irrazionale della mente conosciuta come “immaginazione” e alla quale, a volte, è meraviglioso abbandonarsi.
Daniele “Fenrir” Balestrieri
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TRACKLIST:
01. Intro
02. Where His Ravens Fly
03. Time Between Dog And Wolf
04. Tanfana
05. Runes Shall You Know
06. In Flames
07. Sunnavend
08. Asaland (Bonus Track)