Recensione: To The Bone
Steven Wilson arriva al quinto album solista, dopo il gustoso EP 4½. La nuova avventura del quasi cinquantenne compositore inglese è iniziata nel 2008 con Insurgentes e proseguita nel 2011 con il doppio CD Grace for Drowning: sono due album che risentono della vena dark dei Porcupine Tree (band di maggior successo di Wilson). Il capolavoro assoluto risale a quattro anni fa, The Raven That refused to Sing, pietra miliare per le generazioni future; Wilson è riuscito a spiazzare molti fan proponendo, poi, nel 2015 Hand. Cannot. Erase, un album che dire controverso è riduttivo, ma in line-up spunta la voce suadente di Ninet Tayeb.
E veniamo a oggi, giorni afosi che rendono ancora più palpabile l’attesa per la nuova uscita di Mr. Wilson, “gimnopode” salutista che ha fatto dell’arte la sua compagna di vita. Quando un disco è tanto desiderato e non sappiamo come suonerà, significa che l’artista in questione ha ancora delle frecce al proprio arco, anche dopo 30 anni di carriera. Con To The Bone si svela un lato in parte inedito di Wilson, che regala un’ora di musica come sempre sopraffina, ma lo fa con maggiore levità rispetto al passato. Non è stricto sensu un album pop, non è un album progressive (né tanto meno metal), non è un album virtuosistico, né un album “per nerd”, semplicemente un disco di buona musica che sa mirare al cuore dell’ascoltatore, irretirlo in un percorso sonoro poliedrico e appagante.
Wilson se lo può permettere, è circondato da un’aura d’insondabilità imprevedibile, è l’absolute man che regge da solo le sorti del prog. contemporaneo (ma non diteglielo, potrebbe offendersi di una simile semplificazione). Oltre ai citati Porcupine Tree, milita in altre band come No-Man, Blackfield, Bass Communion, Storm Corrosion; si è occupato del remix di album targati King Crimson, è un mago del suono, i Dream Theater avrebbero voluto proprio lui per la produzione di Octavarium. In questo album il mastermind si mette a nudo (l’artwork è minimale come pochi) e scava nell’essenza del suo essere artista, tributando un omaggio alle sue influenze musicali, dai soliti Pink Floyd, a (per sua stessa ammissione) Peter Gabriel, Kate Bush, Talk Talk e Tear’s For Fears.
Per quanto riguarda i testi, così li commenta in breve Wilson:
Lyrically, the album’s 11 tracks veer from the paranoid chaos of the current era in which truth can apparently be a flexible notion, observations of the everyday lives of refugees, terrorists and religious fundamentalists, and a welcome shot of some of the most joyous wide-eyed escapism I’ve created in my career so far. Something for all the family!
Le undici tracce dell’album, tematicamente, passano dal caos paranoico dell’epoca corrente nella quale il vero può sembrare una nozione flessibile, a sguardi sulle vite quotidiane di rifugiati, terroristi e fondamentalisti religiosi, e a un assaggio della più gioiosa evasione dalla realtà che io abbia creato in carriera fin qui. Qualcosa, insomma, per tutta la famiglia!
Veniamo alla musica. L’opener e title-track è un pezzo memorabile, ne canterete il refrain sotto l’ombrellone. Dopo un breve sample, con una voce femminile ad affermare pacatamente che a suo dire «[the] truth is individual calculation», la canzone s’avvia sorniona con percussioni e chitarre settantiane. Il ritornello, dicevamo, esplode con una carica contagiosa, Steven e Ninet sono affiatati nell’invito corale a un “Hold on!” combattivo e pieno di energia. Alla fine del quinto minuto non manca un break di quelli eterei che fanno amare la musica di Wilson. Come inizio davvero non c’è male. Pianoforte e toni mesti nell’incipit di “Nowhere Now”, poi un altro ritornello fatato e cullante, ma troviamo pure una breve parte solistica più ottimista che sa parlare all’anima. Impossibile non commuoversi anche con la seguente “Pariah”: la voce dell’israeliana Ninet Tayeb è il valore aggiunto. Wilson ha visto bene nel coinvolgerla nei suoi progetti, a partire dal 2015. La cantante ha un’ugola versatile, sa passare da toni rochi a note vellutate, senza escludersi esplosioni estemporanee (vedi min. 3:28). Il finale di “Pariah” ha qualcosa di trascinante da brividi, si riascolterebbe il crescendo in calce all’infinito.
Come niente fosse segue “The Same Asylum As Before”, un brano su tutt’altre coordinate sonore. Un pezzo sbarazzino, ma con alcune asprezze, i soliti inserti acustici e linee di basso pulsanti. Forse non è una song memorabile, ma non abbassa troppo il livello qualitativo del platter. Il cambio di atmosfere non cessa, con “Refuge” torniamo a immergerci in sonorità più cariche di pathos. Un pezzo, degno dei connazionali Marillion, diviso in due: parte lenta e parte tirata, con la gustosa presenza di Mark Feltham all’armonica. Si affronta il tema della guerra in Siria e di chi fugge per sopravvivere (anche i The Tangent nel loro recente album si sono occupati di questa tragedia contemporanea). Seguono due brani corti. “Permanating” è la sintesi della bravura compositiva di Wilson, il quale con due accordi e un refrain catchy sa realizzare una song con un unico difetto, la sua durata estremamente effimera. Avremmo voluto che una simile hit avesse uno svolgimento più articolato, magari con una parte centrale strumentale, ma a pensarci bene il suo fascino sta anche nella sua struttura circolare ad libitum che s’interrompe all’improvviso con un fade out. Inutile dire che si tratta di una canzone pop che potrebbe figurare in un album di Elton John. Nel videolcip dedicato, Wilson incredibilmente sorride, chi l’avrebbe mai detto dieci anni fa? “Black Tapes” è un mero duetto Wilson-Ninet, non lascia il segno. Serve, semmai, per creare il giusto senso d’attesa prima della scoppiettante “People Who Eat Darkness” (un titolo che non può non inquietare). Buon rock scanzonato, nessun virtuosismo fine a se stesso, l’assolo di chitarra è gustoso.
Gli ultimi tre pezzi coprono un terzo della durata complessiva del platter. “Song of I” è il brano più oscuro in scaletta (alla O.S.I.), c’è spazio per arrangiamenti elettronici e la mente può confrontarsi col proprio inconscio avendo il giusto sottofondo musicale. “Detonation” si presenta come una mini-suite da nove minuti. Da segnalare la parte groovy che inizia a metà del settimo minuto: un tuffo negli anni Settanta, nonché momento tra i più ispirati di To the Bone e che gratifica l’ascoltatore arrivato fin qui nella scoperta dell’album. Tutto si chiude con “Song of the Unborn”, ballad ariosa, ma che non convince appieno, un filler in definitiva.
L’album è terminato. è passata un’ora come un soffio. I brani che colpiscono di più sono “To The Bone“, “Pariah“, “Permanating” e “Detonation“; convincono meno “The Same Asylum As Before“, “Blank Tapes” e “Song Of the Unborn“. Complessivamente non ci si può dire delusi, la ventata d’aria fresca portata da Wilson con questo album sfrondato dagli orpelli prog. più impegnativi è un toccasana con queste temperature agostane. Chissà in futuro cos’altro s’inventerà il musicista inglese, che di certo tornerà anche su lidi meno accomodanti. Per ora è l’ennesimo del full-length da riascoltare più e più volte. Non ci resta che aspettare Wilson al Teatro degli Arcimboldi il prossimo febbraio e tributargli il giusto riconoscimento.
p.s. Per I fan più danarosi sarà disponibile anche una versione limitata dell’album a special con libretto da 120 pagine e un CD con demo e altri mirabilia.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)