Recensione: Tomocyclus
Atmosfere ovattate e scenari zuccherosi. Tramonti westcoastiani e rilassatezza cantautoriale.
Una manciata di ritornelli facili-facili e canzoni leggere come una brezza estiva che spira in una serata di stelle luccicanti.
Il panorama è chiaro, lo stile manifesto, i riferimenti dichiarati e le ambizioni pure…
Affascinati dalle morbide e confortevoli ambientazioni dell’AOR dai toni più lievi e distesi, i fratelli Riekerk (Thomas – Voce e Robert – Chitarre e Tastiere), olandesi di nascita, mutuano il profondo amore per il melodic rock dalla passione del padre, grande ed accanito ascoltatore di band quali Giant, Foreigner, Bad English e Toto che, sin dalla prima infanzia, ha avuto il notevole merito di instradare la coppia di figlioletti all’apprezzamento di artisti eccellenti, divenuti negli anni, autentiche icone del genere.
Con una solida esperienza nel mondo del business musicale, maturata essenzialmente entro i patri confini, il binomio di musicisti ha coltivato per anni l’ambizione di onorare la memoria del padre – nel frattempo scomparso – mediante la creazione di un progetto dalla intensa ed incrollabile devozione per l’AOR, riscoprendo insieme le radici e le influenze che ne hanno accompagnato le giornate sin dalla tenera giovinezza.
Un’idea di band melodica, insomma, dalle chiare intenzioni “romantiche”, finalizzata alla creazione di una miscela di musica e sentimenti nello stile che, per concetto, è da sempre tra i più adatti al trasmettere emozioni edulcorate e passionali, abbracciando risvolti – quando necessario – sin malinconici.
Bella l’idea, toccante lo spunto di partenza e fascinoso il contesto stilistico di riferimento (il grande scenario AOR degli anni ottanta).
Purtroppo un po’ meno convincenti e positivi gli esiti reali dell’operazione sfociata nella release del debutto “Tomocyclus” (il nome della barca di babbo Riekerk), contornata di molti buoni propositi che, alla resa dei conti, rimangano eccellenti solo sulla carta e non sembrano, ad oggi, mostrare reali segni d’inequivocabile apparentamento con la grandezza delle eccelse muse ispiratrici.
I volenterosi Sparklands, infatti, pur manifestando una buona sensibilità per la costruzione di atmosfere profondamente west coast, devono fare i conti con due punti critici di notevole preponderanza. O come direbbe l’uomo di strada: grossi “così”.
La mancanza di una voce davvero incisiva e di alto profilo ma, soprattutto, la grave latitanza di un songwriting realmente capace di segnare il cammino del gruppo con un nucleo di brani appariscenti, significativi ed in grado di garantire un effettivo salto di qualità ad un album che, in tal modo, non può essere definito molto più che semplicemente “carino”.
Qualche buon pezzo, concentrato nella parte iniziale della scaletta, rende il primo approccio piacevole anche se, va detto, la sensazione costante è quella di rapportarsi ad un prodotto dalla scarsissima longevità, destinato ad esaurire il proprio appeal nell’arco di pochi ascolti successivi.
Le linee guida entro cui ricercare possibili punti di contatto, si rivolgono senza alcun dubbio all’epopea del rock da arena degli anni ottanta, riservando tuttavia, un notevolissimo richiamo per la scena scandinava: il risultato si colloca così a metà strada tra i già citati Toto/Foreigner ed i vari Street Talk, Talk Of The Town ed Alien. Senza tralasciare chiarissimi elementi di vicinanza con la produzione di Frédéric Slama e dei suoi AOR.
Leggere, morbide, quasi soffuse, tracce quali “The Game”, “Skyline”, “Joanne” e “Oasis” (non a caso le prime quattro della tracklist), suscitano immagini costiere dai colori estivi, garantendo frammenti di spensieratezza e vivacità.
Il proseguimento non è però supportato da altrettanta esuberanza, lasciando spazio ad una serie di episodi non propriamente memorabili, più adatti ad una veste da confortevole e poco impegnativo “sottofondo”.
Passaggi che – fatta salva qualche eccezione (il sinuoso slow notturno alla Mister Mister di “State Of Mind” ad esempio) – non incidono in maniera significativa e scorrono un po’ incolori senza lasciare grandi tracce, offrendo l’impressione complessiva di un disco che nella propria essenza “amichevole” e benevola non vuole proprio saperne di offendere.
Ma che pure, in questo modo, nemmeno riesce a spiccare il volo verso quella stratosfera dell’AOR di cui, nelle intenzioni dei creatori, vorrebbe essere discendente diretto e degno perpetuatore.
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