Recensione: Too fast for love
Agli inizi dei gloriosi anni 80′, quando ancora il metal non era diviso in tanti sottogeneri ed i pochi gruppi votati alla musica più violenta in circolazione gettavano le fondamenta per lo sviluppo dei vari filoni, dall’assolata California spuntò un quartetto che in pochi anni s’impose all’attenzione mondiale e per l’innegabile qualità della proposta musicale e per lo stile di vita vizioso e pericoloso (“più sesso, droga e rock n’ roll che ogni altra band sulla faccia del pianeta” recitava il giornale Rolling Stones per descrivere la loro carriera!!!). All’epoca non si sapeva bene dove sarebbero arrivati i quattro rockers che, sbancato l’Auditorium di Santa Monica con un’esibizone memorabile, furono messi sotto contratto da una piccola etichetta per la quale partorirono questa piccola gemma intitolata “Too fast for love”. La storia ci racconterà poi di presunte morti per overdose e repentine resurrezioni, folle oceaniche di fans adoranti, milioni di dischi venduti, belle donne, motociclette e una manciata di capolavori; ma tra i solchi di questa opera prima si poteva già intravedere la forza devastante ed autodistruttiva di una band che riscrisse la storia dell’hard rock, indossò e dismise per prima gli stretti panni glam, inventò lo street metal e diede una reale idea di cosa fosse la trasgressione. Non molto lontani da quello che sarà il loro indiscusso capolavoro “Shout at the devil”, Vince, Nikki, Tommy e Mick abbattono le (appena nascenti) barriere tra generi estremi e fondono la pesantezza del metal, certa rabbia punk e reminiscenze hard rock per creare un sound ruvido ed ostico, condito da testi politicamente scorrettissimi (furono tra i primi grandi nemici dell’inesorabile macchina di censura americana) ed oltraggiosi. Si parte con “Live wire”, un vero manifesto programmatico, in cui il riff tagliente ed acido di Mars dà il via ad una veloce killer song sorretta dal drumming fantasioso e impazzito di Lee e dal potente basso di Sixx, su cui si staglia la voce stridula di Neil. Un vero cavallo di battaglia. Ma é nella seguente “Come on and dance” che l’interpretazione vocale diventa veramente aspra ed ipnotica rasentando la follia isterica nella parte finale su un giro di chitarra pesante come un macigno. Con “Public enemy n°1” s’intravedono sprazzi melodici nel leit motiv del pezzo, ma distorsione di chitarra e batteria non lasciano scampo a concessioni di mercato: siamo sempre in bilico tra hard ed heavy. “Merry-go-round” dovrebbe essere la ballata che spezza un pò il ritmo forsennato del disco, ma é talmente sinistra e strana la melodia ed ossessivo il suo ritornello che lascia una reale sensazione d’angoscia e si prega di ritornare nelle roventi atmosfere precedenti; ed infatti “Take me to the top” parte sparata per poi alternare rallentamenti e velocizzazioni in un’entusiasmante cavalcata che sfocia nella strana miscela di punk e metal della dissonante “Piece of your action”. Grandissime songs, ma a mio parere nella parte finale si raggiunge veramente l’apice: prima la cadenzata “Starry eyes” smorza un pò i toni incandescenti del lavoro risultando un pezzo più meditato, poi la title track fulmina i timpani con un azzeccato rifferama martellante che gioca con i funambolici passaggi di batteria dell’ottimo Tommy Lee; alla fine arriva il mio pezzo preferito, ovvero “On with the show” dove un delicato e bellissimo arpeggio di chitarra elettrica (sempre in distorsione però) dà vita ad una potente ed ispirata semi-ballad in cui si narrano le gesta di un certo Frankie, ragazzo di strada, che negli ultimi istanti della sua vita sregolata trova la forza di spronare la sua ragazza ad andare avanti con lo show. In seguito la visione de “L’attimo fuggente” e i versi di un Mercury morente resero limpido il concetto, era chiaro quale fosse lo show. Ma la ruvida poesia di questi quattro ragazzacci californiani aprì le porte: “Signori, lo spettacolo continua…”