Recensione: Torn Arteries
Dopo vari rinvii a causa della pandemia da SARS-CoV-2, è finalmente giunto il momento del nuovo disco dei Carcass, “Torn Arteries”, preceduto da un EP di assaggio, “Despicable”, uscito nell’ottobre scorso.
Un EP che, seppur nella sua brevità, aveva fornito alcune indicazioni sullo stato di salute di uno dei gruppi che ha scritto la Storia del death metal. Con la speranza che il previsto full-length, questo, potesse dare nuovamente lustro ai Nostri, apparsi in tale frangente un po’ a corto di idee. Di quel dischetto, compare qui la sola ‘Under the Scalpel Blade’, per cui il resto è tutto da scoprire.
Cominciando dall’opener nonché title-track ‘Torn Arteries’ è subito chiaro un elemento essenziale: i Carcass sono i… Carcass. Nessuna rivoluzione e/o cambiamento epocale. Lo stile unico e inimitabile del combo di Liverpool è immutato, perlomeno nelle componenti primarie Il che non può che far piacere, giacché pone il combo stesso ai vertici internazionali in quanto a livello di personalità. Sono davvero pochi, e soprattutto nel campo del death, quelli che si lascino riconoscere anche solo dopo poche note.
Il sound, tuttavia, appare un po’ meno tagliente del solito. Meno chirurgico, insomma, e un pizzico più death. Un aspetto che è chiaramente voluto, forse per sporcare appena appena una perfezione troppo… perfetta, inumana. Quasi per dire: «ehi, ricordatevi che dietro agli strumenti ci sono degli esseri umani e non delle macchine!». Un modo, anche, per sottolineare che l’LP è frutto di solo sudore e non di campionamenti, inserti elettronici, ambient, ecc. Fatto che genera una specie di calore emotivo che è, forse, la maggiore evidenza dei Carcass attuali.
La tecnica esecutiva è sempre assestata su livelli molto molto elevati, il che consente alla band di essere in grado di muoversi sul rigo musicale come meglio crede. E lo fa con una certa varietà d’intenti, prediligendo mid-tempo sulfurei e potenti, come quelli che sostengono ‘Dance of Ixtab (Psychopomp & Circumstance March No. 1)’. Il che implica un necessario approfondimento compositivo, poiché, spesso, accelerare all’inverosimile nasconde eventuali magagne nel rispetto dell’ideale forma-canzone. Inoltre, andare avanti con un incedere cadenzato rischia di risucchiare la noia nelle canzoni, essendo questo tipo di approccio più indifeso nel caso le idee latitino.
I Carcass risolvono, purtroppo per loro, solo in minima parte questo problema, giacché non tutte le ciambelle pare siano venute con il buco, rimandando la memoria ai difetti evidenziati da “Despicable”. ‘Eleanor Rigor Mortis’, per esempio, è un episodio che non lascia molta traccia di sé, anzi. Le dissonanze ci sono e sono ficcanti, intrusive, nondimeno lasciano un po’ di amaro in bocca per un approccio sostanzialmente scolastico. Il brano, insomma, non decolla, pur avendo in sé, sempre e comunque, il DNA di una formazione storica. Che non è certo poca roba. Il feeling ci cui si è scritto più sopra, al contrario, tende a inspessirsi, donando al disco intero un mood crudo, spietato, comunque tendente al freddo come da tradizione della casa.
Forti della loro classe – e questa non si può minimamente discutere – appare interessante il voler affrontare la prova del nove, consistente nella creazione della suite ‘Flesh Ripping Torment Limited’. In questo caso il quartetto inglese dà prova di buona continuità e consistenza musicale, grazie alle quali lungo i nove minuti e passa della song non si percepiscono evidenti cali di tensione. Le variazioni sul tema sono peraltro parecchie, e muovono il costrutto più che sufficientemente con numerosi cambi di tempo che sferzano l’atmosfera come una frusta schioccante. Senz’altro il miglior brano dell’itero lotto. Che sia la naturale progressione tecnico/artistica dei Nostri? Al momento, trattandosi di un segmento a sé stante, non si può rispondere a questa domanda, rinviandola ai prossimi lavori.
Per quello che riguarda il resto del platter, poco altro da dire: i Carcass ci sono, questo sì, sono sempre eleganti nel loro incedere musicale ma non riescono a creare qualcosa di memorabile che spicchi dall’enorme mota che prende il nome di death metal. Un’opera che sicuramente troverà successo fra i fan sfegatati ma che, presumibilmente, non lascerà gran traccia nell’esistenza dei Carcass medesimi. E la paventata noia, alla fine, dopo reiterati ascolti, piano piano arriva a inglobare nel suo etereo grigiume, anche se non completamente, “Torn Arteries”.
Peccato.
Daniele “dani66” D’Adamo