Recensione: Touchdown
Inarrestabili come un Panzer Tiger I, ecco tornare con un album nuovo fiammante gli U.D.O. dell’inossidabile Udo Dirkschneider.
Archiviata ormai dal 2005 la sua avventura con gli Accept, da anni il sergente di ferro del heavy metal porta avanti il percorso artistico con la sua band personale.
Il titolo Touchdown ed il minaccioso pallone ovale in copertina lasciano intuire che il football americano abbia ispirato Udo per questo nuovo capitolo. Compatti come una squadra che deve affrontare un campionato difficile, gli U.D.O. con questo disco vogliono appunto realizzare il touchdown che consenta loro di portare a casa la tanto agognata vittoria. Ma come tutte le squadre che si rispettino prima bisogna pensare allo schema di gioco. Con Udo nel ruolo di presidente, allenatore e quarterback, vengono confermati Andrey Smirnov e Fabian “Dee” Dammers alle chitarre. Alla batteria troviamo Sven Dirkschneider, figlio di Udo che, dopo essersi fatto le ossa in alcune apparizioni live nelle file dei Saxon, dal 2015 è entrato in pianta stabile nell’azienda di famiglia. Per concludere ecco piazzato un buon colpo di mercato: dopo l’abbandono di Tilen Hudrap arriva in squadra Peter Baltes, storico bassista degli Accept letteralmente soffiato da Udo agli ex compagni.
Il disco, come prevedibile, non offre grosse novità rispetto agli altri lavori targati U.D.O.
La formula rimane quella di un heavy metal veloce a graffiante con ritornelli melodici di sicura efficacia, specie durante esibizioni live. Tredici brani sparati con la precisione di un fucile Mauser Gewehr 98.
Le nerbate di batteria di Sven aprono le danze di Isolation Man, una rasoiata metallica con cui Udo e company corrono fin da subito sui fili dell’alta tensione. Ancor metallo rovere con The Flood, un tempo medio dove Smirnov e Dammers fanno un autentico muro di riff con le chitarre.
The Double Dealer’s Club e Fight For The Right giocano la carta dall’hard rock/ metal con ritornelli anthemici. In Fight For The Right poi viene ripreso un passaggio del Rondo Alla Turca, tratto dalla Sonata Per Pianoforte di Mozart.
La voce di Udo, nonostante gli anni, continua a graffiare e ad essere ancora incisiva. Infatti pur senza possedere propriamente un ugola d’oro, nella sua ruvidezza riesce a rimanere una costante nel tempo. Un po’ come già altri usignoli quali Chris Boltendahl o Bobby Ellsworth.
Punchline è un mid tempo squadrato con tonalità più cupe.
Con The Betrayer la formazione tedesca abbassa le tonalità e prova a ricorrere a certi suoni più moderni pur senza snaturare il classico marchio di fabbrica.
Il piatto forte di mr Dirkschneider restano comunque gli inni da cantare a squarciagola. Ed ecco che anche qui troviamo composizioni come The Battle Understood, un heavy metal schietto con un ritornello tagliato su misura per i concerti dal vivo. Sulla stessa lunghezza d’onda anche in Better Start To Run, dove potenza e melodie accattivanti vengono sapientemente miscelate da Udo nel realizzare un pezzo d’impatto sicuro. Anche il resto della band fa la sua parte per portare la palla alla meta (giusto per restare in tema col titolo del disco). La formazione viaggia ben compattata grazie al supporto di una valida sezione ritmica. D’altronde Peter Baltes e Udo si conoscono bene avendo lavorato fianco a fianco già dai tempi degli Accept. Per quanto riguarda il suo rampollo Sven, dopo averlo cresciuto a pane, birra e metallo, lo ha mandato a far gavetta nei Saxon, sotto l’ala di zio Byff per poi metterlo a battere la cadenza ai suoi U.D.O..
La buona scuola si sente…
Il disco procede seguendo lo stesso copione di quanto ascoltato finora. Sad Man’s Show sfoggia dei riff spigolosi dai quali emergono i consueti passaggi melodici. Con Heroes Of Freedom si punta su un hard rock dai tempi medi che culmina in un soliti ritornello catchy. Non si discosta di molto da queste coordinate neanche Forever Free, dove si gioca su un riff di chitarra coinvolgente. Living Hell è un mid tempo dall’andamento stradaiolo che fa da ponte prima del brano conclusivo.
Infine la title track Touchdown che chiude il disco con la stessa irruenza di un tir senza freni. Una speed song con cui Udo e la sua squadra giungono alla meta sbaragliando gli avversari proprio come faceva l’indimenticabile Bud Spencer in Lo Chiamavano Bulldozer.
Touchdown è il classico disco che ci si aspetta dagli U.D.O., con tutti i pregi e i difetti del caso.
Vale la pena ribadire come ormai non abbiano molto senso confronti con gli Accept. Le due band hanno preso le loro strade, e a nulla servirebbero paragoni su chi ha fatto meglio e chi peggio.
Con Touchdown, Udo non ha realizzato il disco più bello della sua carriera, e questo probabilmente lo sa bene anche lui.
Ciò che conta è che il risultato finale corrisponda ad un prodotto onesto e coerente. Un uscita che, pur non essendo una pietra miliare, almeno offre quelle garanzie minime di heavy metal DOC.
Quelle che a noi possono anche bastare.