Recensione: Towers of Gold
I Sacred Outcry ne hanno combinata un’altra delle loro. A tre anni dal notevole “Damned for All Time”, e nonostante una formazione pesantemente rimaneggiata, ecco che i nostri baldi greci piazzano la loro seconda zampata, intitolata “Towers of Gold”: un concept album destinato a far breccia nel cuore di parecchi amanti del power metal. Dieci tracce per poco meno di un’ora di musica, durante la quale i quattro greci dispiegano il classico arsenale del power ellenico: ritmi pulsanti, cori poderosi, chitarre grosse, melodie ancore più grosse e, soprattutto, un respiro avvolgente che in più di un’occasione la butta sull’epica intransigente e coatta. “Towers of Gold” ne ha per tutti i gusti: furibonde accelerazioni dal fare sferzante, improvvisi squarci melodici, rallentamenti cupi velati da una maestà solenne, arpeggi languidi e cavalcate eroiche. I Sacred Outcry giocherellano in continuazione con la materia sonora a loro disposizione, sporcando il power metal di partenza con elementi più vicini a certo heavy d’oltreoceano – che mi hanno più volte ricordato Warlord e Virgin Steele – e tocchi velatamente sinfonici per creare un ibrido musicalmente stratificato, dal piglio impattante e l’intensa carica evocativa. Inutile dire che il nuovo acquisto dietro al microfono, Daniel Heiman (ex Lost Horizon e in forze anche ai connazionali Warrior Path), con una proposta del genere ci va a nozze, e neanche a farlo apposta l’ugola d’oro del signor Daniele si dimostra la classica ciliegina sulla torta, capace di donare quel quid in più ad un lavoro già di per sé bello denso, sia per qualità compositiva che per quantità di carne messa sul fuoco.
L’arpeggio sognante tra tuoni lontani di “Through Lands Forgotten”, col suo vago sentore di Blind Guardian, apre il sipario su “Towers of Gold” per poi cedere il passo alle sferzate combattive di “The Flame Rekindled”. Il pezzo mescola power e heavy, drappeggiando su ritmi agili melodie propositive ed improvvise impennate enfatiche, il tutto reso possibile dall’ottimo lavoro di chitarre mai dome e una sezione ritmica precisa e variegata. Neanche il tempo di riprendere fiato che arriva l’attacco incombente e vagamente esotico di “The Voyage”. La traccia mantiene ritmi agili e un taglio eroico, seppur meno incisivo rispetto all’opener, e trova un ottimo punto luce nella sezione strumentale che riecheggia certi maiden d’annata. “Into the Storm” rallenta per incedere con una gravitas infusa, di tanto in tanto, dal respiro epico che tanto piace al quartetto. La sezione solista si tinge dapprima di un’atmosfera carica d’attesa, trepidante, per poi puntare su una resa maggiormente atmosferica in preparazione del finale. Un arpeggio languido apre “Symphony of the Night”, brano lento e solenne dalle melodie cariche di pathos, al limite della ballata, che improvvisamente acquista corpo tramutandosi in una cavalcata che, nonostante i toni smorzati, carezzevoli, non rinuncia a una certa enfasi declamatoria e sfuma in un finale nuovamente dolce. Superata la breve ma comunque intrigante “A Midnight Reverie”, intermezzo atmosferico in cui Daniel ha un’altra occasione di mettersi in mostra, si arriva alla minacciosa “The Sweet Wine of Betrayal”, marcia scandita che punta su una resa veemente e declamatoria. L’afflato solenne del pezzo permane per tutti i suoi otto minuti scarsi, fermandosi sempre un attimo prima di scadere nell’eccesso grazie alle note più cupe che lo punteggiano per rimettere tutti in riga. “The City of Stone” torna a suonare la sveglia, colorando la solennità della traccia precedente con un piglio più agile, screziato da improvvise fiammate eroiche e coronato da un ritornello di quelli belli cafoni. Si arriva ora alla lunga title track, che, approfittando del quarto d’ora scarso a sua disposizione, rimescola gli elementi della proposta ellenica in una traccia di ampio respiro. Il brano alterna segmenti vorticosi e determinati a brevi pennellate trionfali e dal retrogusto esotico, sfruttando le intromissioni di piano e cori come raccordo tra i vari movimenti per cementare l’idea di un racconto in musica, in cui i cambi di tono determinano gli sviluppi della trama. Il finale vede note dolenti, crepuscolari, che si caricano pian piano di nuovo pathos per creare un climax drammatico ma senza scadere nell’eccesso. Il compito di chiudere definitivamente il sipario su “Towers of Gold” è affidato alla malinconica ma comunque maestosa “Where Crimson Shadows Dwell”, brano acustico che sigilla l’album con una nota di sereno trionfo.
Per tornare alla mia frase di apertura sì, i Sacred Outcry ne hanno combinata un’altra delle loro. “Towers of Gold” è sicuramente un ottimo lavoro per la compagine greca, nonché un più che degno successore dell’esordio. Il quartetto confeziona un album sontuoso ed avvincente, dotato di ottimi spunti e melodie di grande impatto, impreziosito da una tenuta solida e una qualità complessiva che non scende mai sotto una certa soglia, peraltro piuttosto alta.
Confermatissimi.