Recensione: Toys in the Attic
Si può tranquillamente affermare, a 30 anni esatti di distanza dalla sua uscita sul mercato, che “Toys in the Attic”, terzo prodotto della compagine capitanata da Steven Tyler e Joe Perry, fu il punto di svolta e l’ultimo gradino per la scalata al successo degli Aerosmith. Infatti, se con “Aerosmith” (1973) la band aveva iniziato a farsi vedere ed apprezzare soprattutto nella costa est (quella fredda però, New York, Phila e naturalmente l’originaria Boston, per intenderci) e con “Get your Wings” (1974) aveva avuto una bella botta di vita, visto il buonissimo inserimento in classifica del prodotto (e durerà 86 settimane tale permanenza), che si distingueva dal primo per un sound più aggressivo (l’inizio della svolta), la terza fatica di questi indimenticabili Rockers li porta a vette molto più alte, come ad esempio il pieno diritto di andare in tournee ed aprire i concerti di altre icone intoccabili dell’hard e non solo (come ad esempio i Kiss, forse l’unico gruppo hard americano U.S.A del periodo che ebbe una carriera inizialmente più fulminante, e gli adorati ZZ Top), senza contare poi il boom che l’album fece ai botteghini (che fu sì immediato ma più diluito nel tempo, tanto da raggiungere nel 1994 il multiplatino numero 6), anche grazie ai singoli usciti (prima e dopo) l’album stesso, che sono “semplicemente” del calibro di “Sweet Emotion” e “Walk this Way”. La line-up è la stessa di un anno prima, quindi vede i già citati Steven Tyler al microfono (ma anche tastiera, percussioni e inseparabile armonica) e Joe Perry alla chitarra (solista, slide e acustica, più percussioni e backing vocals), affiancati all’efficace trio composto da Brad Whitford (chitarra ritmica e solista), Joey Kramer (batteria e percussioni) e Tom Hamilton (basso e chitarra ritmica). Sotto la guida del confermatissimo produttore Jack Douglas vi sono anche altri due guest, Scott Cushnie (pianoforte su “Big ten Inch Records” e “No more no More”) e Jay Messina (basso marimba su Sweet Emotion). Lo stile, come ho già detto, varia, non perché cambi in senso assoluto, ma perché continua a personalizzarsi sempre di più, facendo pian piano abbandonare quegli accostamenti che volevano il quintetto prima vicino ai Led Zeppelin, poi agli Yardbirds, passando per i Rolling Stones e così via. Non vengono gettate nel dimenticatoio queste origini, certamente no, però inizia a prendere forma concreta un sound personale, appunto il sound Aerosmith, un hard rock dal riffing decisamente massiccio e crudo, capace però di spaziare a un eccellente blues rock e a pregevoli melodie. In questi contesti sonori si inserisce alla perfezione la voce dell’ex Tallarico, squillante pulita e magnetica se serve, così come a suo agio, e in perfetto autocontrollo, quando ha da essere sporca, ruvida, veloce e “bastarda”. Detto dell’encomiabile prestazione del vocalist e del prodotto a grandi linee (inutile parlare dei musicisti ora, lo faremo strada facendo), vediamo di approfondire un po’ sulle nove tracce di “Giocattoli in soffitta”, che si distinguono in bene dalle masse musicali e per musiche e per dei testi a mio avviso molto buoni, ricercati e spesso dotati di ben più di un doppio senso. L’apripista del platter altro non è che la titletrack, spesso dai più dimenticata ma a mio avviso perfettamente degna di stare fra le hit dei bostoniani. Velocissima, sfacciata e aggressiva, la song mostra subito la nuova ruvidezza del combo con un riff spettacoloso e tiratissimo. Tutto si adegua a questo giro selvaggio, da un cantato ispirato a un pregevole lavoro della batteria sullo sfondo. Ben poco il distacco fra refrain e strofe e un assolo stralunato e pirotecnico sono i complementi ideali di una sana, furiosa, cavalcata. Ritorno a un profumo più bluesy col delizioso mid tempo “Uncle Salty”, che propone un Tyler grandissimo interprete su tutti. Bello il lavoro di basso, che traina il brano lasciando alla chitarra il compito di impreziosire il tutto con buoni stacchi melodici, che non lasciano fermi. Ancora buona musica con la bella “Adam’s Apple”. L’alternanza tra il melodico riff di 6 corde e la continuità del basso, peraltro anche perfettamente fusi fra loro all’occorrenza, è una delle carte vincenti del brano, molto simile nello stile al precedente. Anche qui il frontman è molto a suo agio, giocando con la voce e dando una impostazione gustosa al suonato. Molto enfatizzato il ritornello, che richiama all’attenzione così come l’assolo sdoppiato. Una leggera batteria ci porta presto a un riff che nessun dichiarato rocker può non conoscere. Sto parlando ovviamente di quello di “Walk this Way”, forse la song più famosa degli Aero. Brano conosciutissimo (anche grazie alla, mah, ripresa del pezzo, un buon decennio dopo, da parte dei Run DMC), esso fa proprio del riff di Perry l’arma vincente del repertorio, ma sarebbe limitato fermarsi qui, perché ogni singola nota è al suo posto. Sfido chiunque a non canticchiarla e battere il tempo mentre l’ascolta, questa perla senza tempo. La traccia che taglia a metà il prodotto è la a dir poco goliardica e gioiosa “Big Ten Inch Record”, un boogie blues perfetto per i piani bar del Sud Usa della prima metà del secolo scorso. Molto buono il contributo del pianoforte, che per quanto centellinato si sposa alla perfezione con gli altri strumenti, soprattutto con la bella armonica. Insomma, una vera e propria ventata d’aria fresca, degno passatempo che precede l’altra super hit “Sweet Emotion”. Meno gretta e molto più ampia e completa di Walk this Way, il pezzo è sulla stessa orbita di Walk grazie specialmente a un tremendo lavoro di basso, al quale seguono diversi riff secchi ma allo stesso tempo adorabili. C’è tempo anche per un signor arpeggio, in questo finora eterogeneo e splendido disco, che compare nella magica “No more no more”. Non saprei nemmeno cosa dire se non che si tratta dell’ennesimo colpo geniale del quintetto. Le strofe sono a dir poco coinvolgenti, nell’alternanza del tema portante, il pianoforte dà ancora quel tocco in più e…. basta, sentitela e ditemi se non è stupenda!. Lenta, ma molto pesante e non certo ballad la possente “Round and Round”, l’anello debole di una catena finora quasi indistruttibile. Non so perché, ma a pelle vedo questo pezzo un po’ come i cavoli a merenda, pur avendo i suoi lati buoni, come ad esempio il bel crescere in sede di pre-ritornello. Dopo tanta grinta giunge il tempo, con la closer, per la dolcezza e la malinconia, che si manifestano in “You see me Crying”, da molti considerata brutta ma che a me piace tantissimo (forse perché amante dei lenti), molto più di tante hit e lenti che la band avrebbe sfornato per esempio una decade dopo. Sarà che la produzione fa rimanere un odore di vecchio, ma secondo me fra questa song e una, chessò, Crazy (peraltro grande pezzo), non c’è nemmeno paragone, a vantaggio ovviamente di you see me (e nonostante la voce volutamente aspra e carica di risentimento, a tratti, di Tyler). Conclusione : se questo non è il miglior disco degli Aerosmith, davvero poco ci manca. Diciamo che se la gioca solo con Rocks, venuto un anno dopo, forse più compatto e concreto ma a mio avviso molto meno estroso di questo Toys, che rimane un grandissimo, enorme lavoro (di quelli che reputo i “veri” Aerosmith). Poi, beh, affettivamente per me il dubbio nemmeno si pone, fra i due prendo questo disco senza pensarci due volte.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) Toys in the Attic
2) Uncle Salty
3) Adam’s Apple
4) Walk this Way
5) Big ten Inch Record
6) Sweet Emotion
7) No More No More
8) Round and Round
9) You See me Crying