Recensione: Traces
“Traces” è il secondo album per i tedeschi Ash of Ashes, uscito pochi giorni fa e a distanza di quattro anni dal possente debutto “Down the White Waters”. Per definire la propria musica il duo alemanno usa l’espressione epic skaldic metal, dietro cui si cela un metallo magniloquente e pomposo a cui si contrappone, di tanto in tanto, un’anima sferzante che bazzica i territori del viking più asciutto. L’accostamento di questi elementi – nonostante sia tutt’altro che inusuale – crea, durante l’ascolto di “Traces”, un’ambivalenza intrigante ma anche piuttosto strana, che trova il suo punto di contatto nel respiro epico che permea le tracce e ne costituisce il leitmotiv. Per dare qualche riferimento in più e inquadrare così l’operato degli Ash of Ashes, immaginate un mix tra i Falkenbach meno feroci e gli ultimi Týr. Il combo germanico apprende la lezione del connazionale – soprattutto per quanto riguarda la sua abilità narrativa – e la metabolizza aggiungendovi l’immediatezza un po’ cafoncella dei faroesi, e se è vero che Skaldir e Morten concentrano i propri sforzi molto più sulla ricerca di un pathos diretto (fatto di melodie accessibili anche se un po’ sopra le righe) che sull’aspetto prettamente viking (relegato in pratica a pochi episodi) il profumo che si respira in “Traces” rimanda a mio avviso piuttosto spesso ai nomi anzidetti.
La strumentale “Beyond White Waters” apre le danze col suo profumo solenne e cadenzato, da overture, che dopo aver seminato bricioline di un certo tipo scompagina le carte cedendo il passo alla più movimentata “Under the Midnight Sun”: un pezzo determinato che svolazza tra profumi viking, un reparto vocale che si destreggia tra ruggiti ferini e squarci enfatici e un piglio sostenuto, screziato solo sporadicamente da passaggi più lenti e maestosi. Come biglietto da visita non c’è male, ma i nostri alzano l’asticella con la successiva “Into Eternity”, scelta come singolo apripista e devotamente votata alla più sfacciata dispensazione di pathos, compito reso agevole dal contributo di Lars Jensen dei Myrkgrav dietro il microfono. I già citati echi dei Falkenbach si fondono col metallo più cafone per dar vita ad una traccia possente e immediata, inframmezzata da una sezione strumentale più compassata che apre al climax finale, che dopo aver lasciato l’ascoltatore con una salutare sensazione di pancia piena lo traghetta alla successiva “The Eternal Traveller”. I ritmi si abbassano di nuovo, ma le coordinate stilistiche restano grossomodo le stesse: metal solenne e scandito dominato da melodie imperiose, il cui afflato epico si mescola a reminiscenze vagamente folk per impennare oltremodo l’enfasi complessiva, anche a costo di sforare nell’indigesto. “Evermore” pigia leggermente sull’acceleratore per puntare su una resa più quadrata, sfruttandola per dispensare un trionfalismo più solare ed accessibile pur mantenendo un respiro maestoso non privo, però, di fugaci note più carezzevoli. Un arpeggio dimesso e sognante introduce “Vem Kan Segla Förutan Vind”, canzone popolare delle isole Åland il cui profumo norreno aiuta a spezzare la preponderanza di certa pomposità e sfuma nella successiva “A Lion Guards our Names”. Qui, dopo un’apertura inquieta, il duo torna a riecheggiare i Fakenbach più stentorei confezionando un pezzo che mescola le due anime del gruppo in modo convincente ed omogeneo, passando senza problemi da picchi di epicità a brevi e feroci sfuriate. “Southbound” prosegue su questa rotta, mescolando su una base strumentale insistita e vagamente ipnotica un duello vocale fatto di ruggiti e cori melodici che, però, non mi ha convinto fino in fondo, forse per via di una resa finale meno incisiva di quanto mi sarei aspettato. Chiude l’album la ballata “To Those Long Forgotten”, in cui compaiono le voci di Rúnahild (già comparsa nel debutto del gruppo per essersi occupata delle parti di hardingfele, uno strumento tradizionale norvegese simile al violino) e di Christopher Rakkestad (autore della copertina). Il pezzo, che tratta il dolore di chi perde i propri figli in guerra, sposta la ricerca di pathos che costituisce l’anima del gruppo in un mood più struggente e meno sfrontato, sfumando questo “Traces” con una bella nota agrodolce che ne smorza la cafonaggine in favore di un tiro quasi intimista.
“Traces” non mi è affatto dispiaciuto e al netto di alcuni passaggi un po’ bulimici, durante i quali mi è sembrato che gli Ash of Ashes stessero sconfinando in una leggera pacchianeria, garantisce una quarantina di minuti appaganti e dimostra che il duo tedesco ha elaborato in modo intelligente la lezione di chi l’ha preceduto.
Niente male.