Recensione: Transgression

Di Daniele D'Adamo - 15 Settembre 2007 - 0:00
Transgression
Band: Fear Factory
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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76

I Fear Factory non avrebbero bisogno di grandi presentazioni in virtù di quanto prodotto di buono nella loro lunga carriera, tuttavia un breve excursus storico della stessa è necessario, per comprendere, o meglio, cercar di comprendere correttamente Transgression (2005), ultima fatica dell’act americano. I Fear Factory sono nati all’inizio degli anni ’90, come band dedita ad una feroce commistione fra Death Metal ed Industrial, con una line-up che, negli anni seguenti, si è mantenuta salda e costante: Burton C. Bell – vocals, Christian Olde Wolbers – bass, Dino Cazares – guitars e Raymond Herrera – drums. Così sino al 2004, quando Dino Cazares abbandona il gruppo, con conseguente rimescolamento della formazione comprendente Christian Olde Wolbers alle chitarre, ed il nuovo acquisto Byron Stroud al basso (in pianta stabile anche nei progetti di Devin Townsend, come ad es. Strapping Young Lad). Ed è con questa line-up (inalterate le posizioni di Burton C. Bell e Raymond Herrera) che viene inciso ed dato alle stampe, nell’agosto del 2005, Transgression.

Prima di iniziare a descrivere le canzoni che compongono l’album, un accenno alla produzione dello stesso, che ha dato un taglio più “caldo” e meno “meccanico” al groove generale, diversamente da quanto fatto per i lavori precedenti. Detto ciò, la prima canzone del platter è 540,000 Degrees Fahrenheit, che parte con un’introduzione massiccia e potente, per poi confluire nella strofa cantata, in maniera clean, da Burton C. Bell, ove a far da sotto fondo alla strofa stessa ci sono solo le parti di basso e batteria, arricchite da campionature Industrial. Nel pre-chorus, la canzone si indurisce nuovamente, per preparare, con il successivo screaming di Burton C. Bell, il melodicissimo refrain in clean. Notevole in break centrale, ritmato, cadenzato e meccanico come da “stile Fear Factory”. Poi è il turno di Transgression, dove non muta la direzione intrapresa dal gruppo ad inizio album: ritmiche pesantissime, campionature Industrial, riff stoppati, precisi e potenti, basso e batteria in progressione costante. Qui Burton C. Bell urla tutta la sua rabbia in uno screaming disperato e violento. Atipico e molto ricercato il pre-chorus, poco orecchiabile, ma seguito dal chorus vero e proprio, improvvisamente melodico, caratterizzato dalle alte tonalità raggiunte dal cantante stesso. Segue Spinal Compression, dove Christian Olde Wolbers e Raymond Herrera, aiutati dal rombo continuo del basso Byron Stroud, producono un urto sonoro dall’impatto devastante. La canzone, sempre permeata da campionature Industrial dopo la citata, pesantissima, introduzione, prosegue nelle strofe cantate con un grande clean da parte Burton C. Bell. Prima del refrain, amelodico ed urlato in coro, Raymond Herrera si concede dei fulminei blast-beats, tanto per non dimenticare le origini del gruppo e per rendere l’insieme irresistibilmente potente e dinamico.

Quarta canzone dell’album è Contagion. Anche qui, partenza potentissima e pesantissima, con accordature degli strumenti “sottotono”, e Burton C. Bell impegnato, nelle strofe, ad alternare screaming e growling. Dopo un simile inizio spunta fuori, inaspettatamente, un refrain da mandare a memoria per armonia: in clean, melodico ed orecchiabile, addirittura sostenuto da indovinate parti sinfoniche che impreziosiscono inaspettatamente la canzone, davvero dal songwriting vario e di grande classe. Con Empty Vision, si prosegue sul tono delle canzoni precedente: accordature basse, cantato in clean, riff pesanti e massici, pre-corus in screaming, break centrale dall’incedere meccanico. Con Echoes Of My Scream, sesta canzone del platter, i toni improvvisamente si abbassano per dar spazio ad una canzone lenta, meditata, introspettiva, dai toni grevi ed evocativi, con una sentita interpretazione vocale di Burton C. Bell. Stupende orchestrazioni, che accompagnano il trascinarsi languido e possente della parte ritmica, impreziosiscono il tutto. Con Supernova si passa, se si può passare il termine in questo genere di Metal, ad un potenziale “hit”, con strofe dall’andamento Rock, ritornello melodico, da cantare insieme al gruppo, e sensazione generale di “leggerezza”, nonostante le parti ritmiche siano sempre presenti ed in evidenza. L’ottavo brano del disco è New Promise, dall’introduzione lenta, pulita e velatamente malinconica, che improvvisamente sale subito di intensità, dinamicità e potenza, con grande prova in screaming di Burton C. Bell, e presenza, unica, di un accenno di assolo di chitarra da parte di Christian Olde Wolbers. Molto dissonante il chorus, ma affascinante, nonostante ciò.

Poi, come nona e decima canzone del platter, i Fear Factory propongono due cover: I Will Follow degli U2 e Millennium dei Killing Joke. Cover di cui sinceramente non si comprende il significato, se non come pezzi dalle mere funzioni riempitive. Chiude il platter Moment Of Impact, dove finalmente l’act riprende a macinare il proprio ritmo dall’incedere possente ed incessante. Originale il pre-chorus, in crescendo costante, prima del chorus, urlato ed amelodico, sempre su di una sezione ritmica incessante e su delle parti di chitarra serratissime.

In conclusione, un album che regala canzoni interessanti, momenti di strabordante potenza e momenti di coinvolgimento emotivo per le parti più lente e meditate. Le canzoni, cioè, prese una per una, dimostrano una qualità molto alta del songwriting – a volte con momenti di gran classe ed originalità – ma si dimostrano troppo eterogenee fra loro, come se fossero state messe insieme in fretta e furia, senza un comune filo conduttore. Questo fatto, unitamente alle “inutili” cover, rende l’album ottimo, ma non eccellente.

Daniele D’Adamo

Tracklist:

1 – 540,000 Degrees Fahrenheit
2 – Transgression
3 – Spinal Compression
4 – Contagion
5 – Empty Vision
6 – Echo Of My Scream
7 – Supernova
8 – New Promise
9 – I Will Follow
10 – Millennium
11 – Moment Of Impact

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