Recensione: Transience
Tornano gli Shylmagoghnar, formazione proveniente dai Paesi bassi e dal nome impronunciabile ed inscrivibile. Poche storie, il loro debut album “Emergence” aveva accolto nugoli di applausi e si era fatto notare sia in termini di critica che di pubblico, forte di un sound progressivamente strutturato ma non banale e non eccessivamente cerebrale. A quattro anni di distanza, il duo, composto da un multistrumentista e da un singer torna con “Transience”. Ancora una volta evitiamo i giri di parole: possiamo dire che ci troviamo innanzi ad un disco che presenta certamente poche novità, ma racchiude al suo interno moltissime piacevoli conferme.
Ritroviamo in questo album il death progressive, violento e sfaccettato, che aveva ben impressionato nella prima opera degli olandesi. Di maturazione ce n’è stata, con le composizioni che, pur rimanendo lunghe e relativamente intricate, si confermano compatte e convincenti. Il punto di forza, a nostro avviso, è dato dal contrasto che viene a crearsi tra le composizioni strumentali e quelle cantate.
Va soprattutto detto che, a dispetto di un minutaggio davvero corposo, sono proprio le strumentali ad affascinare maggiormente. “The Dawn of Motion” e la meravigliosa “The chosen Path”, strutturate su un unico motivo, si rivelano essere le due composizioni più semplici da assimilare, rimanendo subito in testa dopo pochi ascolti. Purtuttavia, è probabilmente proprio “The chosen Path” il pezzo più bello del lotto, con i suoi vaghi riferimenti alla musica classica e le eteree tastiere onnipresenti.
Venendo ai pezzi cantati, impossibile non citare la title track, 12 minuti di adrenalina pura, costruita su accelerazioni vertiginose che aprono splendidamente il disco e fanno capire come gli Shylmagoghnar non scherzino. Notevole anche “The shadow of the Heart”, che con i suoi quattro minuti risulta il pezzo più breve tra gli otto presenti in tracklist. Quattro minuti sì, ma pure caratterizzati da una certa, insospettata, apertura a soluzioni tipiche del black, che danno una curiosa orecchiabilità al pezzo, rendendolo quasi catchy. Degno di nota poi il trio conclusivo (per oltre mezz’ora di musica), che sintetizza molto bene in sé tutta la complessa proposta musicale dei neerlandesi.
L’unico dubbio che rimane alla fine di “Transience”, riguarda le vocals. Non certo perché il growl risulti in qualche modo approssimativo o adeguato. Però pare spontaneo chiedersi se l’apporto del clean non possa giovare agli Shylmagoghnar, aumentando la varietà delle composizioni e alleggerendo qua e là il tutto. Purtuttavia, rimane il fatto che in un panorama come quello del death progressive (soprattutto dove il prog supera il death, come nel caso dei nostri), l’assenza del clean può comunque essere un tratto distintivo dei nostri.
Ad ogni modo, “Transience” rimane un ottimo disco, singolare e solido e gli Shylmagoghnar un progetto a cui auguriamo la miglior fortuna.