Recensione: Transition
Transition è il settimo album di Steve Lukather, chitarrista sopraffino noto ai più soprattutto per la sua militanza nei Toto.
Pubblicato a tre anni dal precedente All’s Well That Ends Well, il disco vede la partecipazione di una lunga lista di musicisti dalla notevole esperienza, tra i quali spicca il nome di Gregg Bissonette, che mise le proprie bacchette a disposizione dei Toto stessi per un breve periodo nel 1995.
Va da sè che Transition sia suonato perfettamente e gli arrangiamenti denotino il grande gusto di Lukather, il quale si è occupato personalmente della produzione, coadiuvato da quel C.J. Vanston che divide con il chitarrista la maggior parte dei credits di Transition.
La musica proposta oscilla tra il rock melodico, l’AOR, il blues e qualche spruzzata di fusion. L’opener Judgement Day dimostra come si possa ancora scrivere canzoni dalle melodie semplici e accattivanti senza scadere nella banalità: trattasi, infatti, di un rock vagamente malinconico dalla struttura coesa, la cui strofa e ritornello entrano in perfetta simbiosi in virtù di un crescendo ben gestito dalla sapienza strumentale dei musicisti.
Creep Motel è un blues, l’ennesimo blues, salvato da un gran bel groove che ne fa dimenticare una certa ovvietà di fondo.
L’attacco di Once Again fa immediatamente riconoscere lo stile della classica ballad dei Toto, cui la voce di Lukather aggiunge quel pizzico di personalità che la tiene distinta dalle produzioni della band-madre.
Toni crepuscolari tornano anche nella seguente Right the Wrong, piccolo capolavoro di Transition grazie alla sua natura di raffinata ballad pop capace, diversamente da Once Again, di dare un motivo all’opera solista di Lukather.
Ancora blues, ancora groove, ancora riffing rock su base fusion nella title-track, che permette al chitarrista americano di sfoggiare le proprie doti di musicista versatile e arriangiatore straordinario: il break centrale sorretto dalla chitarra acustica è un gioiello.
Last Man Standing è un pop rock molto Toto nella strofa, che però non incide particolarmente e si fa ricordare soprattutto per il bell’assolo, fatto sì di poche note, ma tutte al posto giusto.
Do I Stand Alone esplora territori in cui non sarebbe strano incontrare Bon Jovi e Ritchie Sambora con le orecchie attente a carpire i segreti dell’arioso ritornello scritto dal collega Lukather.
Rest of the World è l’unico pezzo originale del disco non firmato dal chitarrista losangelino. La canzone odora di blues rock anni sessanta, con l’inevitabile spleen del genere e quell’aria di già sentito che, una volta tanto, non stucca.
Infine, Smile è il riarrangiamento per chitarra dell’omonimo, celeberrimo pezzo scritto da Charlie Chaplin nel 1936 per il suo film Tempi moderni: senza dubbio, un eccellente modo per chiudere il disco.
Un signor lavoro questo Transition, meritevole di ascolto anche da parte del metallaro più intransigente. Ma fatelo di nascosto: i vostri vicini potrebbero illudersi che vi siate finalmente decisi ad aver pietà del loro povero udito.
Carlo Passa