Recensione: Transmission
Per chiunque si definisca un appassionato di hard rock melodico, il nome di Dan Reed non può che richiamare alla mente quello del suo storico (e quasi omonimo) gruppo: i Dan Reed Network.
Se, tuttavia, siete tra coloro che vorrebbero tornare a sentire il vecchio Dan dilettarsi con quelle sonorità a mezza via tra hard ‘n’ heavy, funk e black music è bene dipanare fin da subito il potenziale equivoco. Niente chitarre esuberanti, ritmi ancheggianti e atmosfere festaiole: la produzione solista di Reed presenta – da sempre – un taglio fortemente introverso ed intimista.
“Transmission”, quarto album solista del cantante originario di Portland, non fa eccezione a quanto poc’anzi descritto, configurandosi come un album perlopiù giocato su coordinate sonore il più delle volte affini al soft rock più che all’AOR.
Delle ben tredici tracce in scaletta, la maggior parte può dirsi inquadrabile nella categoria delle “ballate malinconiche”; canzoni certamente ben suonate e a volte anche foriere di passaggi emozionalmente notevoli, cui tuttavia non giova la mancanza di qualche impennata in grado di dare un po’ più di dinamismo al tutto.
Meglio, in questo senso, le più ispirate (e leggermente più movimentate) “Roll The Dice”, “Anywhere But Here” e “On The Metro” o l’accorata “Arm Yourself” rispetto a brani al tirar delle somme un po’ incolori quali l’opener “Broken Soul” o le inconcludenti “Drive”, “Bending The Light” e “Fire In The Pyramid”. Ë tuttavia l’album, nel suo complesso, a risultare poco digeribile in virtù di un basso voltaggio che non trova (o quantomeno non sempre) una reale arma di riserva in un songwriting un po’ sbiadito.
La voce di Dan, poi, sempre impostata su un registro soffuso – che non sembra peraltro essere troppo nelle sue corde – non offre particolari spunti di interesse, aggiungendo un’ulteriore patina di grigiore a brani che forse gioverebbero di un’interpretazione vocale più convinta e appropriata.
“Transmission”, lo avrete capito, non è un lavoro esecrabile ma nemmeno un album che stimoli ad ascolti ripetuti, piuttosto una raccolta di canzoni piacevoli da ascoltare in sottofondo ma che non lasciano grandi tracce del loro passaggio.
Da più parti la produzione solista di Dan Reed è stata accostata a quella del più celebre Kip Winger; viste le comuni “origini” sonore dei due artisti, il paragone non è certo campato per aria ma va detto che la profondità – espressiva e contenutistica – di album come “Songs From The Ocean Floor” o “From The Moon To The Sun” è qui decisamente lontana.
Sufficiente, forse anche discreto per gli amanti di queste sonorità, ma onestamente nulla più.
Stefano Burini