Recensione: Transmutations

Di Daniele D'Adamo - 30 Luglio 2021 - 0:00

Fetid Zombie? Allora sarà la solita band di death metal marcio e purulento… e invece no.

“Transmutations“, settimo full-length della one-man band del mastermind Mark Riddick, si rivela essere un contenitore di contaminazioni, divagazioni, spinte progressive ed elementi che, a priori, con il genere proposto nulla hanno teoricamente a che fare.

Per ottenere questo risultato, Riddick si circonda di un buon numero di musicisti, sempre e comunque dell’ambiente death, sì da poter proporre una quantità di idee fresche e, soprattutto, diverse fra loro. Tanto diverse da dipingere l’LP con una moltitudine di colori diversa dal solito nero. Anzi, in molti casi si va a sfiorare l’heavy, il gothic, il doom, dando così al lavoro quella poliedricità che, bisogna ammetterlo, manca nel death metal primigenio. Sì, poiché, comunque, l’impronta forte, quella che alla fine emerge con più forza, è proprio quella di un genere ancorato ai dettami di base risalenti alla fine degli anni ottanta / inizi degli anni novanta.

Questa modalità costruttiva si percepisce sin da subito con la suite iniziale, ‘Chrysopoeia’, coraggioso esempio di come si possa creare un sound praticamente unico nella sua specie intersecandolo con ardite costruzioni melodiche. Eterei cori femminili, ossimori di un roco, ruvido growling, formano linee vocali per nulla scontate. Ma, soprattutto, sono gli assoli e gli arpeggi di chitarra, inaspettati e improvvisi, a riempire il brano di melodia, anche in questo caso dando luogo a un qualcosa le cui facce visibili sono diametralmente opposte, musicalmente parlando (‘Dreamless Sleep Awaits’).

Un’elaborazione siffatta presenta, in teoria, il rischio di dar vita a qualcosa che non abbia la giusta compattezza, la corretta individuazione di uno stile che non si disperda per via delle divagazioni in esso presenti. Ciò non accade, giacché questa… mobilità di genere viene sì spinta in avanti con decisione ma con una stretto abbraccio che la rende immutabile al passare delle canzoni. Non si percepiscono sfilacciamenti o dispersioni, insomma, potendo ascoltare un’opera davvero caleidoscopica tuttavia sempre ben delineata nei suoi confini, intesi come limiti di una foggia artistica che mantiene sempre e comunque un propria identità, una coerenza a se stessa a priori per nulla semplice da ottenere.

Tanto è vero che il mood del platter emerge costantemente con forza nella sua immersione in un mondo tetro, oscuro, visionario, a tratti addirittura lisergico (‘Conscious Rot’). E, ultimo ma non ultimo, triste e solitario.

Tutto quanto sopra, però, emerge come un solitario bastione che si erge dalla non-esistenza solo e soltanto con un accurato e reiterato ascolto del disco, con la mente libera da pregiudizi. Solo così si può entrare nelle astrazioni concepite dal Nostro. Le quali, a un certo punto, entrano nel cuore e nell’anima. In profondità. Non mancando, addirittura, una hit (sic!), ‘Beyond Andromeda’, le cui arcane armonie paiono essere le chiavi per entrare, letteralmente, fra le pieghe di “Transmutations”.

C’è anche la piena esemplificazione del puro e semplice death metal, rintracciabile in ‘Deep in the Catacombs’, ove la chitarra ritmica è foriera di riff grezzi e involuti, e il ritmo è più lineare nello spingere in avanti. Si tratta di un segmento sostanzialmente unico che, in ogni caso, ben si aggancia al resto delle song. E, a tal proposito, non si può menzionare la closing-track ‘Breath of Thanatos’, riassunto di tutto quando più sopra estrinsecato.

“Transmutations” necessità di un approccio con la testa completamente libera da preconcetti, per essere assimilato sino alle ossa. Solo così si potrà esplorare un universo parallelo in cui il death metal diventa un’entità diversa dal solito, seppure pregno di tradizioni, usi e costumi classici.

Daniele “dani66” D’Adamo

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